Giornalista, vaticanista, cattolico che interroga e si interroga, Raffaele Luise in questo suo libro su Panikkar (Raimon Panikkar-Profeta del dopodomani, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2011) ricorre all’artificio letterario del giovane ricercatore spirituale che si reca da discepolo in visita al Mestro, artificio che gli consente di parlare in terza persona e lo mette al riparo da possibili critiche e dall’attuale diffidenza e sufficienza verso incontri straordinari, che hanno bisogno di apparati di protezione per essere rivelati e partecipati. Raffaele ci racconta così, con grande freschezza, degli intensi giorni di incontro con questo personaggio eccedente, ambivalente, “teatrale”, per farcelo avvicinare in presa diretta, senza dover attraversare l’estenuante lettura della sua fluviale scrittura. Catalano e indiano, di madre cattolica e di padre induista, sacerdote cattolico che poteva dire di sé “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”, ossimoro vivente (al punto di conservare la sua qualità sacerdotale pur essendosi sposato, civilmente, ma con benedizione religiosa), attento a costruire un’immagine di sé adeguata alla rappresentazione della propria leggenda, teologo e mistico, Panikkar possedeva il fascino di chi esprime profondamente la vicina e continua presenza del sacro. Luise (il giovane-Raffaele) ci avvicina a lui e ci trasmette, attraverso la toccante narrazione di questa esperienza di devozione, prostrazione, condivisione di spazi, di luce, di cibo sempre tesa verso l’Assoluto, quello che può significare incontrare un Maestro. È ancora possibile oggi? C’è ancora spazio per interpreti, profeti, messaggeri, che vorremmo capaci di sintesi in un tempo in cui le analisi esitano, di risposte quando le domande sono sempre più incerte, di donazioni di verità a chi sa di non poterle più né esigere né accettare?
Il filo che attraversa tutto il tessuto del racconto è l’invito a realizzare quelle comunioni fusionali in cui l’io individuale evapora e si salva perdendosi, come tutte le tradizioni religiose hanno da sempre esortato a fare. E questo dovrebbe anche portare a realizzare una sorta di rivitalizzazione della tradizione cristiana, non più in grado, attualmente, di offrire orientamenti universali, prigioniera di sé e delle strutture che ha edificato, incapace persino di utilizzare lo splendore di un pontificato come quello di Benedetto XVI. Lo strumento fondamentale per questo fine viene individuato nel dialogo interreligioso, quello che dovrebbe far ritrovare elementi di effervescenza spirituale (Durkheim) e di slancio vitale (Bergson), capaci di trasformare il declino in un futuro luminoso e (ci sia consentito) spiritualmente sincretico. Lasciamo doverosamente ad altri il giudizio dall’interno di questo progetto di sdivinizzazione del cristianesimo, presentato come potenziamento universalizzante (Cristo cosmico come Logos o Dharma) e non come conclusione fallimentare di una delle più dense rivelazioni storiche. In un mondo rumoroso e afasico, globalizzato e frammentato, plurale e conflittuale, che simula e dissimula il suo bisogno di senso e di sacro, il ricorso al religioso “altro” (in una magica “inter-in-dipendenza”, dice Panikkar) è forse una via di uscita da ambienti troppo chiusi, ma non sembra promettere un ingresso a mondi e a modi più ricchi e più sani.
Le “risposte” che si intravedono attraverso il racconto di Luise sembrano comunque far ricorso ai vecchi attrezzi dell’Occidente, come l’“intelligenza della Terra” (trascurando lo sgomento di chi resta attonito nel vederla, invece, così sciupona nel disinvolto sacrificare migliaia di coscienze per dare un più comodo assetto alle pietre), l’“amore disarmato” (anche verso Hitler, Bin Laden e i dirottatori delle Torri gemelle?) o dell’Oriente, la solita armonia che concilia bene e male, luce e ombra (sfiorante una complice indifferenza verso il dolore), e ammorbidisce la morte con l’abusata metafora della goccia d’acqua che torna al mare. Il mito del peccato originale, che pur aveva incupito la nostra infanzia, serviva almeno ad affermare l’inaccettabilità radicale di tutto il male della natura e della storia!
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che qui siamo di fronte non a Panikkar ma al racconto che ne fa il ragazzo-Raffaele, e le risposte del Maestro saranno da cercare meno nelle parole e più nella sua vita di testimonianza e di fede, in quel fascino che emana dalle posizioni pretragiche e premoderne (da S. Francesco al Dalai Lama), e che fanno dire al ragazzo “Davvero sei tu il profeta con il quale il mondo dovrà confrontarsi in futuro”, mentre “con la mano accarezza i lunghi capelli di quell’uomo capace di attingere all’invisibile”. Il libro è la storia di questo grande amore spirituale che, come tale, non solo non dobbiamo giudicare, ma che commuove, dà forza e, in qualche modo, risponde a tutti quanti hanno capito ormai che la Verità è nella narrazione, quella a cui, una volta, non si esitava a dare il nobile nome di Mýthos.