«Lo spazio domestico, quello della casa, dell’appartamento (equivalente in fondo al territorio animale) è uno spazio di rumori familiari, riconosciuti, che nel complesso formano una sorta di sinfonia domestica: sbattere differenziato di porte, voci, rumori di cucina, di tubature, echi dall’esterno: Kafka ha descritto con esattezza questa sinfonia familiare in una pagina dei Diari (5 novembre 1911): “Sto seduto in camera mia, nel quartiere generale del rumore di tutto l’appartamento: odo sbattere tutte le porte…”; e si sa l’angoscia del bambino ricoverato in ospedale che non sente più i rumori familiari del rifugio materno»: così R. Barthes scrive dell’Ascolto (in L’ovvio e l’ottuso, tr. it., Torino, Einaudi, 1985), mostrando come, attraverso la quotidianità di questo linguaggio, la “sinfonia domestica” ci introduca e ci leghi al mondo fenomenico, ordinario, orizzontale. Ma noi possiamo, e desideriamo, ascoltare altre voci, che ci portino in un territorio, diverso, altro, “totalmente altro”, in un mondo assoluto, straordinario, verticale, per i quali si richiede la capacità di «un ascolto panico, nel senso greco, dionisiaco».
Si fa obbligatorio, a questo punto, tornare al mitico canto delle Sirene e alle conseguenze del suo ascolto. Non è su queste mitologiche figure che desidero qui soffermarmi (e per questo rinvio all’ampio volume di M. Bettini e L. Spina, Il mito delle Sirene, Torino, Einaudi, 2007 e alla ricca voce in Wikipedia, l’enciclopedia libera), ma sul significato di quel canto e sulle conseguenze del suo ascolto come metafore del percorso e delle realizzazioni spirituali.
Cosa poteva avere di tanto speciale quel canto? Doveva essere, al primo contatto, semplice, comprensibile, quotidiano, come è, ad es., il corpo dell’altro, semplice e quotidiano, ma anche “perturbante”, quando ci viene incontro nella sua assoluta immediatezza: «C’era qualcosa di meraviglioso in quel canto reale, comune, segreto», scrive M. Blanchot (cit. da Barthes), «canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava da riconoscere […] canto dell’abisso: che, inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Quel canto non poteva essere ascoltato impunemente, perché era un in-canto, «un suono di miele», dice Omero. Promettevano le figlie di Acheloo: «Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose. Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei; conosciamo quello che accade sulla terra ferace». Sapere più cose, forse un sapere assoluto, un sapere che ha un alto prezzo per chi cede a questa tentazione: l’allontanamento dalla vita terrena, l’estraniazione, la mortificazione e la morte stessa: «a colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
adagiate sul prato». Commenta A. Tarabocchia Canavero (cfr. Wikipedia): «Sembra al di fuori delle loro intenzioni trattenere per sempre gli uomini che hanno accettato il loro invito: mentono o, incoerenza del mito che le vuole onniscienti, non sanno che il desiderio di “sapere più cose” ha portato tutti coloro che si sono fermati presso di loro per soddisfarlo a dimenticare gli affetti familiari, a trascurare tutto ciò che ha a che fare con la vita, fino a lasciarsi morire: sembrano non rendersi conto che, dal mare, si possono vedere tra i fiori, le loro ossa e loro membra imputridite... La bella voce è solo l'involucro della vera tentazione delle Sirene omeriche: “sapere più cose”. È la tentazione “originaria” dell’onniscienza. Cedere a questa tentazione, assecondare, in modo assoluto, questo desiderio porta a rompere i legami famigliari, a perdere la dimensione sociale e civile, a morire. Per questo Omero le condanna. Per questo l’eroe deve fuggirle, non deve interrompere il suo nóstos [ritorno]».
Per rimanere nella metafora, se il canto delle Sirene possiamo ritrovarlo nelle promesse totalitarie delle “rivelazioni” religiose o nelle seduzioni delle ideologie, non dobbiamo dimenticare che le Sirene possiedono un’arma che può essere ancora più temibile del canto: il loro silenzio. Ci porta a questa riflessione un racconto di Kafka (Il silenzio delle sirene, in Racconti, tr. it., Milano, Mondadori, 1990), che presenta un Ulisse il quale si riempie le orecchie di cera e si fa incatenare all’albero maestro, ma è, possiamo dire, beffato dalle Sirene, che alla sua vista non cantano. Ulisse «aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva. Difatti all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene. Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto questo facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva nulla di loro».
Il silenzio delle Sirene fa pensare all’altra modalità con la quale le “rivelazioni” spesso si presentano, “esprimendo” l’abisso della Totalità nel suicidio della parola in un silenzio “mistico”: se le parole sono sempre inadeguate, tanto vale rimenere in silenzio e cercare “dentro” quel che è impossibile trovare “fuori”!
Rumori della sinfonia domestica, come Verità del mondo fenomenico che ci trascinano nella banalità quotidiana, da un lato; “rivelazioni” della Totalità che ci trascinano via dal mondo pretendendo di collocarci in una realtà “altra”, Pleroma o Vacuità, dall’altro.
Ma insoddisfatti, invaghiti come siamo della Via di mezzo, ci domandiamo: c’è un altro modo di realizzare un “ascolto riuscito”, direbbe Barthes, affermando la Verità dell’“altrimenti” invece di quella dell’irraggiungibile “Altro”? Una risposta, a ben raccoglierla, ci è viene incontro, ancora, dal racconto mitico. Bisogna risalire all’impresa degli Argonauti, precedente i viaggi di Ulisse, e al racconto che di esse fa, nelle Argonautiche, il poeta Apollonio Rodio. Va ricordato che dei componenti della spedizione degli Argonauti faceva parte anche Orfeo, il cantore tracio, figlio di una delle Muse. Quando, al passaggio della loro nave, le Sirene si apprestavano a compiere il consueto gioco di seduzione, egli ingaggiò con loro una gara che mise in salvo i compagni, in modo ben più significativo di quanto avrebbe successivamente fatto Ulisse coi suoi “mezzucci”. «Anche per loro, senza esitare mandavano l’incantevole voce e quelli già stavano per gettare a terra gli ormeggi, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non avesse teso con le sue mani le corde della cetra di Bistonia e intonato un canto vivace, con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel suono: così la cetra ebbe la meglio sulla voce delle vergini. Zefiro e l’onda risonante che spingeva da poppa portavano avanti la nave e il loro canto si fece un suono indistinto». La gara, come osservano M. Bettini e L. Spina, contiene numerosi elementi simbolici: è «gara di canto, di melodia, di ritmo, di vocalità, oltre che sfida mortale; gara di statuti artistici, forse; gara tra un uomo di origini in parte divina e creature ibride, […] incancrenite nel male, come risposta a una felicità sottratta loro da una dea vendicativa». Ma c’è di più: nelle Argonautiche orfiche Orfeo, parlando in prima persona, ci dice: «Cantavo, innalzando la voce con tono acuto, un inno di prodigi, come una volta entrarono in conflitto per dei cavalli dai piedi veloci come il turbine, Zeus alto-tuonante e il marino Scuotitor della terra, e poi il dio-scura–capigliatura adirato col padre Zeus colpì la terra licaonia col suo tridente d’oro e con violenza la frantumò in pezzi nelle acue senza fine per farne delle isole marine; e così le chiamarono Sardegna, Eubea e ancora Cipro ventosa. E dunque, mentre io cantavo con la cetra, le Sirene, dalla cima dello scoglio, rimasero attonite, poi misero fine al loro canto. […] Gemevano in maniera disperata, perché giungeva il giorno fatale della morte» (in M. Bettini e L. Spina, op. cit.). Se dei contenuti del canto delle Sirene non sappiamo nulla, il canto di Orfeo è affascinante proprio nei suoi contenuti, racconta di lotte tra divinità e di fenomeni naturali, non è un canto vuoto, privilegia la parola, le storie e gli eventi. La fine delle Sirene possiamo, a questo punto, leggerla come la fine della capacità di seduzione delle rivelazioni e delle ideologie della Totalità, lo svelamento degli elementi di menzogna presenti in esse e dei disonesti tentativi, totalitari, di presentare la parte come Tutto. L’Assoluto che offre Orfeo è, invece, la Totalità non-totalitaria dell’Assoluto della forma, della parola e del canto, è il cielo e la terra, la bellezza della verità e la verità della bellezza, la perfezione realizzata nella compiutezza del canto o del gesto: non è proprio questo l’insegnamento della Via di mezzo proposto dall’Orfeo indiano che è stato chiamato Buddha, l’Illuminato e l’Onorato dal mondo? E non sono la Bibbia, il Sutra del Loto, la Bhagavad-Gita delle grandi opere di Poesia?