Nella lectio divina tenuta ai seminaristi del Pontificio seminario romano maggiore il 12 febbraio scorso, Benedetto XVI ha fatto una serie di riflessioni su un passo del Vangelo di S. Giovanni, come sempre suggestive e attente alla cultura di oggi. Volendo affermare che la «ragione eterna è amore e così crea», il papa prende spunto da una lettera scrittagli da un fisico di Regensburg sulla concezione del Dio-amore cristiano. Dice il papa: «Poco tempo fa mi ha scritto un professore di Regensburg, un professore di fisica, che aveva letto con grande ritardo il mio discorso all’Univerisità di Regensburg, per dirmi che non poteva essere d’accordo con la mia logica o poteva esserlo solo in parte. Ha detto: “Certo, mi convince l’idea che la struttura razionale del mondo esiga una ragione creatrice, la quale ha fatto questa razionalità che non si spiega da se stessa”. E continuava: “Ma se può esserci un demiurgo — così si esprime —, un demiurgo mi sembra sicuro da quanto Lei dice, non vedo che ci sia un Dio amore, buono, giusto e misericordioso. Posso vedere che ci sia una ragione che precede la razionalità del cosmo, ma il resto no”. E così Dio gli rimane nascosto. È una ragione che precede le nostre ragioni, la nostra razionalità, la razionalità dell’essere, ma non c’è un amore eterno, non c’è la grande misericordia che ci dà da vivere». Benedetto XVI osserva che «l’eterna tentazione del dualismo, che si nasconde anche nella lettera di questo professore, si rinnova sempre, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà. Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?»
Di fronte a questa nuova (?) forma di teodicea, per sciogliere la contraddizione tra onnipotenza e amore, papa Benedetto afferma la loro coincidenza, sottolineando l’onnipotenza dell’amore: «Nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi».
In verità, ci sentiamo più vicini al ragionamento del professore che all’argomentazione del papa. Possiamo concordare sul fatto che Dio non giochi a dadi col mondo e che ci sia un certa razionalità nell’Universo (una razionalità con la quale noi, parte del mondo, siamo in una qualche sintonia), quella che ha consentito alla scienza di formulare i princìpi della termodinamica, le leggi della genetica o della percezione..., ma questa razionalità è anche quella che, per valide relazioni di causa-effetto, genera terremoti, handicap, polmoniti, guerre e abbandoni...: razionalità sì, ma amore non sembra! Il Dio sofferente, Gesù, che per illimitata compassione viene a subire le iniquità prodotte da questa Legge/razionalità e, paradossalmente, per non farsene complice — se rimanesse spettatore indifferente del dolore delle creature — sceglie, per contraddirla, la via della condivisione: ama nel dolore e perché c’è il dolore, il quale, miracoli a parte, non è eliminato (dolore da Lui stesso prodotto o da chi?). Viene sottolineata così proprio la forza di un principio avverso e quello che dovrebbe essere il fulcro dell’argomentazione finisce per dimostrare il contrario, in quanto l’affermazione dell’amore è, ad un tempo, l’affermazione dell’universalità e della persistenza del male e del dolore. Nel mondo finito, quello in cui, limitandosi, si è incarnato, si incontra ineluttabilmente la sofferenza (la finitudine è la sofferenza) e a essa anch’Egli si è sottoposto, sia pure per solidarietà. Dunque, siamo di fronte a un potere che qualcuno che voglia ragionare in termini di princìpi divini può anche non avere tutti i torti a chiamare dio del male, dualisticamente contrapposto al Dio buono.
2 commenti:
Anche per me il Dio / amore non ha senso almeno in questa definizione. Mi dembra che non ci sia differenza tra quello che fa crescere una carota e uno scienziato che fa la mappatura del genoma umano e vince il premio nobel. Per me Dio è energia. Nel senso della fisica. Il prodotto del lavoro. Dio (un Dio impersonale, una forza che si coagula, produce le condizioni del lavoro. Un lavoro che produce a sua volta guerre polmoniti atti eroici, artistici e la creazione di una vita. Della vita. Solo cosi' riesco a non vedere opposizione e non-dualismo.
Certamente, ho sempre presente quel che Jung diceva in proposito: «Io mi sforzo di far capire ai miei pazienti che tutto ciò che accade loro contro la loro volontà viene da una forza superiore. Possono chiamarla Dio o demonio, a me non importa, purché capiscano che è una forza superiore. Ecco, Dio non è nulla di più che la forza superiore che agisce nella nostra vita. Si può avere esperienza di Dio ogni giorno». Ma quel che non possiamo nascondere è che, con la comparsa della coscienza, ciò che in un mondo di cose e di vita vegetale è l’incessante e indifferente alternarsi di costruzione e distruzione, compaiono consapevolezza e giudizio: l’esperienza del dolore nostro e altrui ci impedisce di essere consenzienti con un andamento delle cose che mai approveremmo se fosse attribuito a un essere umano. Non sappiamo perché le cose vadano come vadano, ma ha poco senso considerare amorevole la Volontà o la Legge che governa il mondo e, poiché tra i tanti fenomeni, esiste anche la coscienza questa ha il compito di affermare ciò che chiamiamo vero, bello, buono: dentro questa realtà, ma in rapporto dialettico — se vogliamo dir così — con essa. Cerchiamo di distinguere non-dualismo e giustificazionismo, constatazione e approvazione. Il buddhismo ha parlato di dieci mondi, per differenziare i diversi livelli di coscienza, distinguere quel che vale nel mondo infernale e quel che vale nel mondo degli illuminati; ed è anche il messaggio dell’homme révolté che non vuole essere complice del fatto che la gazzella, in nome della “force des choses”, sia condannata a essere sbranata dal leone: altrimenti, non avrebbero senso tutti i nostri sforzi per affermare compassione, verità, bellezza...
Posta un commento