(foto RV)
A lato dei finestroni strombati della loggia vetrata di Palazzo Barberini (Bernini), appena prima dell'inizio delle ali della facciata, compare una finestra piccola (Borromini), elemento decorativo inatteso su un insieme tanto semplice. Yves Bonnefoy* (Roma 1630, l'orizzonte del primo barocco, Torino, Nino Aragno Ed., 2006) scorge, in quell'elemento, alla luce dell'opera successiva di Borromini, la fatalità d'un destino. “Infatti, la ‘finestra Barberini’ è realmente il primo manifestarsi della forma ‘bizzarra’ che Borromini predilige, irta d'angoli crudeli e scavata di ombre profonde e che si raccoglie su sé stessa, come un elegante animale accovacciato, nell’autonomia d'un profilo. Di una siffatta figura ben si sente, ammaliata com’è da sé medesima, che rifiuta di sottomettersi all’autorità di un centro, di abdicare di fronte alla Presenza, di confessare che l’unità è più vera e reale di ogni esistenza individuale”. È l’affermarsi dell’autonomia dell’io in seno all’Essere che porterà il Borromini a comporre una “musica commovente nella quale ogni forma, nel tentativo di svincolarsi da sé stessa, si annoderà a un’altra forma e a un’altra ancora,secondo una ritmica sottilissima, e senza mai fare altro che ricostruire, su un piano di complessità più elevata, la sventura della forma chiusa”: la forma nostra, soggettiva, moderna, la forma della nostalgia dell'uomo che s'angoscia e si sperde nella ricerca di una paradossale redenzione nella “fatalità segreta della forma chiusa”. *Yves Bonnefoy, n. 1923, poeta, saggista, docente dal 1981 al 1993 di Études comparées de la fonction poétique al Collège de France.
Nessun commento:
Posta un commento