martedì 24 marzo 2009

Un pays pluvieux...

Giornata grigia e piovosa. Essere “roi d’un pays pluvieux [sovrano di un regno piovoso]” (Baudelaire): la memoria va veloce a ritroso fino al corso di Filosofia medievale (Bruno Nardi): “Prima illa entitas in omnibus rebus est forma essendi…”. E il giorno si accende di vivida luce attraverso le lacrime...

lunedì 23 marzo 2009

Liquidi

Ricordo di aver sentito dire che negli incontri importanti viene sempre versato qualche liquido dei nostri corpi: latte, seme, sangue. E aggiungerei anche lacrime, sudore e parole (non sono liquide le parole?). Noi siamo solo quelli che versano: Dio, il Mistero, il Tempo, la Storia decidono che destino debbano avere il latte, il seme, il sangue, le parole...

domenica 22 marzo 2009

Cariatidi#8/Telamoni a Jesi


Palazzo Balleani (1720), su disegno dell'architetto romano Francesco Ferruzzi. Jesi (foto di Gioacchino Venturini)

Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, tr. it., Roma, Edizioni e/o, 2008

Di questo libro, il cui successo testimonia di una insospettata sensibilità in una vastissima fascia di lettori, si possono apprezzare molti aspetti: la struttura del racconto organizzato a più voci e su registri diversi, la spigliatezza narrativa, il tema della differenza (generazionale, sessuale, sociale) e quello del nascondimento, l’allargamento degli orizzonti culturali (l’autrice ha soggiornato in Giappone), le riflessioni filosofiche profonde ma svolte con mano leggera. E soprattutto i modi della sensibilità, nutriti di una non dichiarata spiritualità buddhista ma che costituisce l’aroma di tutto il libro. Si prenda, come esempio, il “rituale” del tè, umilmente ma intensamente consumato dalla portiera e da una sua amica, nella conciergerie del ricco condominio di rue de Grenelle per “incastonare nell’attimo una gemma di infinito”. Un rituale, cioè qualcosa di immutabile “cui avevamo dato vita insieme affinché, un pomeriggio dopo l’altro, esso si radicasse nella realtà tanto da darle senso e consistenza” […], fecondando il tempo con “un po’ di eternità. Fuori il mondo ruggisce o si addormenta, […] avanza, si infiamma, si strazia e rinasce, si agita la vita umana. Allora beviamo una tazza di tè […]. Quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della stessa degustazione, quell’accesso a sensazioni semplici, autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti […] di diventare aristocratici del gusto, […] perché il tè ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia nell’assurdità delle nostre vite. Sì l’universo tende segretamente alla vacuità, le anime perdute rimpiangono la bellezza, l’insensatezza ci accerchia. Allora beviamo una tazza di tè... e, a ogni sorso, il tempo si sublima”. Le due protagoniste poi, la portiera e la ragazza adolescente, due escluse dal mondo attivo degli adulti “ordinari” , sono la metafora della vita attenta e consapevole. Infine, il tema della morte è affrontato non solo con maestria letteraria, ma con originale profondità e delicatezza di visione.

Ma qui desidero soffermarmi su un’osservazione illuminante fatta dall’A. a proposito dei neuroni specchio, oggi tema scientifico alla moda. Di essi scrive Corrado Sinigaglia (autore con G. Rizzolatti, del vol. So quel che fai, 2006): “Dagli atti più elementari e naturali, come afferrare del cibo con la mano o con la bocca, a quelli più sofisticati, che richiedono particolari abilità, come l'eseguire un passo di danza, una sonata al pianoforte o una pièce teatrale, i neuroni specchio consentono al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri e di riconoscerne così il significato. Senza un meccanismo del genere potremmo disporre di una rappresentazione sensoriale, di una raffigurazione ‘pittorica’ del comportamento altrui, ma questa non ci permetterebbe mai di sapere cosa gli altri stanno davvero facendo”. Su questo, Muriel Barbery si domanda: “Mi è venuta un’idea inquietante, a dire il vero, forse vagamente proustiana […]. E se la letteratura fosse una televisione in cui guardiamo per attivare i neuroni specchio e concederci a buon mercato i brividi dell’azione? E se, la letteratura fosse una televisione che ci mostra tutte le occasioni perdute?”. In altri termini, osservando i movimenti, i gesti perfetti (nella danza, in una liturgia, in una gara sportiva), ascoltando una musica o, grazie al secondo sistema di segnalazione (come suggerisce il vecchio pavloviamo che è in me), anche attraverso la lettura di un testo, quei momenti/livelli di perfezione, di pienezza, di armonia, che l’artista-l’esecutore-lo scrittore ha raggiunto si comunicano anche a noi, ci coinvolgono, producono quelle identificazione profonde che proviamo da spettatori-ascoltatori-lettori quando osserviamo-ascoltiamo-leggiamo. Meritano dunque tutta la nostra attenzione il dono che riceviamo quando “viviamo” opere d’arte, di letteratura o di musica e l’accesso che esse ci consentono al mondo dello Spirito, di cui ogni artista è messaggero ed interprete.

domenica 1 marzo 2009

Sisifo e l’umanizzazione della morte


Sisifo, il più scaltro dei mortali (gli era attribuita anche la paternità dell’astuto Ulisse), era riuscito a ingannare e a incatenare la morte, finché questa non fu liberata per intervento di Zeus o di Ares. La prima vittima della Morte liberata fu lo stesso Sisifo che, tuttavia, riuscì ancora a tornare dagli Inferi e a morire in tarda età. A questo punto, fu inesorabilemte punito con il castigo divenuto famoso: portare in cima a una collina un enorme sasso che, appena giunto alla sommità, rotolava a valle e... il lavoro doveva ricominciare, per l’eternità.
Il filosofo H. G. Gadamer (1900-2002, il grande teorico dell’ermeneutica), riflettendo su questo mito, dice: “Sisifo viene considerato in effetti una sorta di eroe che si afferma con tenacia ed ostinazione. Ma se consideriamo più attentamente il mito, e tralasciamo l’uso che ne fa il nostro modo di pensare così attivistico, emerge qualcosa di estremamente interessante. Sisifo è stato per l'appunto condannato a questa pena per un determinato motivo; egli ha ingannato la morte. Come lo ha fatto? Per noi Sisifo significa effettivamente qualcosa di simile a scaltro, a colui che trova sempre una strada, un trucco: con i suoi inganni egli è riuscito persino ad aggirare il suo ingresso nell'Ade. Per punire questo, ossia per punire la sua volontà di sfuggire alla morte con l'astuzia, è stato condannato ad un tale tormento. Con ciò in realtà si intende dire che si può infliggere una punizione alla volontà di sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della vita. Quando lessi il mito mi venne di colpo in mente l'uso che oggi gli uomini ne fanno: ‘Mio Dio! Noi siamo tutti un po’ su questa strada, prolunghiamo artificiosamente la vita’. Negli attuali centri di terapia intensiva e negli ospedali geriatrici favoriamo il prolungamento vegetativo della vita che per così dire ci allontana dalla morte naturale, la ritarda in un modo che può apparire come una sorta di tormento di Sisifo forse in un senso più profondo — il fatto cioè che la nostra vita cosciente si affievolisce rimanendo ormai solo come esistenza vegetativa. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, Sisifo ha acquisito un nuovo significato simbolico: noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza”. Apprendimento di quella che è la condizione umana, di finitezza e ineluttabilità del morire, di fronte al quale l’uomo dovrebbe resistere “nella totale certezza della propria morte, sopportandola”. Sopportare, nella sua letteralità, è proprio un portare qualcosa che è sopra, un sostenere su di sé, non accettazione, dunque, ma assunzione, che è, ad un tempo, assunzione di responsabilità e lavoro di “umanizzazione” della morte. Questa viene a essere così non più un evento meramente naturale, ma espressione di una cultura consapevole pronta a lottare contro il dolore con tutti i mezzi disponibili, ma decisa nel rifiuto di ingannevoli “terapie”, la cui pratica finisce per venir punita col prolungamento indefinito di un’esistenza non umana.
È possibile quindi parlare di un diritto alla morte come si parla di un diritto alla vita? Risponde Gadamer: “Se si parla di diritto allora si pensa chiaramente che giochi un ruolo la libertà dell'uomo. E la libertà dell'uomo implica sicuramente che nell'agire si vuole essere considerati solo come uomini liberi. Questa domanda dunque a mio avviso non mira a porre la questione del suicidio, che mi sembra stare sotto un altro punto di vista. Parlare a questo proposito di libertà implica un problema religioso. Ma un diritto implica ‘l'altro’, oppure implica il diritto che si ha nei confronti degli altri. Ciò significa allora che si ha il diritto di difendersi, ad esempio, dai moderni metodi terapeutici, i quali in realtà altro non sono che un prolungamento della morte? Io risponderei: Sì! Perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene molto più difficile, poiché la morte, la stessa agonia sono un lento paralizzarsi del libero spazio decisionale in cui l'uomo vive come uomo consapevole e sano”.
Spetta a questo punto alle leggi di uno Stato laico la tutela del diritto dei cittadini a esercitare, nel rispetto delle proprie convinzioni e dei propri stili di comportamento, la personale umanizzazione della morte come ultima e difinitiva affermazione di automia e dignità del soggetto.