domenica 1 marzo 2009

Sisifo e l’umanizzazione della morte


Sisifo, il più scaltro dei mortali (gli era attribuita anche la paternità dell’astuto Ulisse), era riuscito a ingannare e a incatenare la morte, finché questa non fu liberata per intervento di Zeus o di Ares. La prima vittima della Morte liberata fu lo stesso Sisifo che, tuttavia, riuscì ancora a tornare dagli Inferi e a morire in tarda età. A questo punto, fu inesorabilemte punito con il castigo divenuto famoso: portare in cima a una collina un enorme sasso che, appena giunto alla sommità, rotolava a valle e... il lavoro doveva ricominciare, per l’eternità.
Il filosofo H. G. Gadamer (1900-2002, il grande teorico dell’ermeneutica), riflettendo su questo mito, dice: “Sisifo viene considerato in effetti una sorta di eroe che si afferma con tenacia ed ostinazione. Ma se consideriamo più attentamente il mito, e tralasciamo l’uso che ne fa il nostro modo di pensare così attivistico, emerge qualcosa di estremamente interessante. Sisifo è stato per l'appunto condannato a questa pena per un determinato motivo; egli ha ingannato la morte. Come lo ha fatto? Per noi Sisifo significa effettivamente qualcosa di simile a scaltro, a colui che trova sempre una strada, un trucco: con i suoi inganni egli è riuscito persino ad aggirare il suo ingresso nell'Ade. Per punire questo, ossia per punire la sua volontà di sfuggire alla morte con l'astuzia, è stato condannato ad un tale tormento. Con ciò in realtà si intende dire che si può infliggere una punizione alla volontà di sfuggire alla morte solo con un terribile prolungamento della vita. Quando lessi il mito mi venne di colpo in mente l'uso che oggi gli uomini ne fanno: ‘Mio Dio! Noi siamo tutti un po’ su questa strada, prolunghiamo artificiosamente la vita’. Negli attuali centri di terapia intensiva e negli ospedali geriatrici favoriamo il prolungamento vegetativo della vita che per così dire ci allontana dalla morte naturale, la ritarda in un modo che può apparire come una sorta di tormento di Sisifo forse in un senso più profondo — il fatto cioè che la nostra vita cosciente si affievolisce rimanendo ormai solo come esistenza vegetativa. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, Sisifo ha acquisito un nuovo significato simbolico: noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza”. Apprendimento di quella che è la condizione umana, di finitezza e ineluttabilità del morire, di fronte al quale l’uomo dovrebbe resistere “nella totale certezza della propria morte, sopportandola”. Sopportare, nella sua letteralità, è proprio un portare qualcosa che è sopra, un sostenere su di sé, non accettazione, dunque, ma assunzione, che è, ad un tempo, assunzione di responsabilità e lavoro di “umanizzazione” della morte. Questa viene a essere così non più un evento meramente naturale, ma espressione di una cultura consapevole pronta a lottare contro il dolore con tutti i mezzi disponibili, ma decisa nel rifiuto di ingannevoli “terapie”, la cui pratica finisce per venir punita col prolungamento indefinito di un’esistenza non umana.
È possibile quindi parlare di un diritto alla morte come si parla di un diritto alla vita? Risponde Gadamer: “Se si parla di diritto allora si pensa chiaramente che giochi un ruolo la libertà dell'uomo. E la libertà dell'uomo implica sicuramente che nell'agire si vuole essere considerati solo come uomini liberi. Questa domanda dunque a mio avviso non mira a porre la questione del suicidio, che mi sembra stare sotto un altro punto di vista. Parlare a questo proposito di libertà implica un problema religioso. Ma un diritto implica ‘l'altro’, oppure implica il diritto che si ha nei confronti degli altri. Ciò significa allora che si ha il diritto di difendersi, ad esempio, dai moderni metodi terapeutici, i quali in realtà altro non sono che un prolungamento della morte? Io risponderei: Sì! Perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene molto più difficile, poiché la morte, la stessa agonia sono un lento paralizzarsi del libero spazio decisionale in cui l'uomo vive come uomo consapevole e sano”.
Spetta a questo punto alle leggi di uno Stato laico la tutela del diritto dei cittadini a esercitare, nel rispetto delle proprie convinzioni e dei propri stili di comportamento, la personale umanizzazione della morte come ultima e difinitiva affermazione di automia e dignità del soggetto. 

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