La rinascita (o reincarnazione o trasmigrazione) è, in
Oriente, sentita come una sventura, una sorta di “punizione”, necessaria per
raggiungere una purificazione completa (evidentemente non realizzata nell’ultima
vita da cui si è usciti) attraverso una nuova esistenza e nuovi dolori per
realizzare la estinzione finale e mettere un termine definitivo alle sofferenze
(Nirvana come estinzione): tutt’altro che una nuova opportunità offertaci post mortem (o, come qualcuno ha detto, “un
altro giro di giostra”)! L’esigenza di assicurare una continuità tra i fenomeni
e l’esigenza etica di non lasciare senza alcuna sanzione le azioni “malvage” ha
condotto a una concezione non priva di ambiguità (da cui espressioni come
«prendere forma in una nuova nascita» pur senza passaggio «da un’esistenza
all’altra», Milindapañha), esposta
utilizzando analogie, a volte fuorvianti (analogia della lampada che viene
accesa attraverso la fiamma di un’altra lampada), e basata sulla teoria degli
“aggregati” (skandha), oggi poco
significativa.
In definitiva, quello
della rinascita (fuori o dentro il buddhismo) appare un problema mal posto,
basato su un errore linguistico, che ha scambiato il verbo (che indica una
funzione) col sostantivo (che indica una cosa), errore da non sottovalutare se,
come ricordava Michel de Montaigne, «la maggior parte delle cause degli
sconvolgimenti del mondo sono grammaticali» (Saggi, II, XII). In altre parole, come risponderemmo se ci
domandassimo: dove va il camminare quando non ci saranno più le gambe? O ancora:
una candela accesa produce fiamma e luce, ma quando la candela si è consumata e
spenta dov’è andata a finire la luce? Il messaggio contenuto nella dottrina buddhista
dell’assenza di esistenza inerente dei fenomeni (e quindi del soggetto) si
configura pertanto come una definitiva liberazione dal ciclo delle rinascite,
avendo eliminato ogni residuo sostanzialistico che ha reso anche il dolore, da
cui si cerca di liberarsi, impermanente. Ciò nonostante, l’idea della rinascita
e il conseguente impegno per la
“liberazione”, continua a essere riproposta in Occidente da varie da scuole e
insegnanti “orientali”.
A questo proposito, vale la pena di ricordare quanto E. M.
Cioran affermava, nel suo stile ironico e provocatorio, su questi sforzo
inutile: «La ricerca della liberazione si giustifica
soltanto se si crede nella trasmigrazione, al vagabondaggio infinito dell’io, e
se si aspira a porvi termine. Ma, per noi che non ci crediamo, porre termine a
che cosa? A questa nostra durata unica, e infima? Essa è manifestamente troppo
breve, perché meriti la fatica di sottrarvisi. Per il buddhista, è un incubo la
prospettiva di altre esistenze; per noi la cessazione di questa, di questo
incubo. Anzi, di incubi datecene piuttosto un altro, saremmo tentati di gridare,
affinché le nostre disgrazie non finiscano troppo presto, affinché esse abbiano
modo di seguirci per molte vite. La liberazione è una necessità soltanto per
chi si senta minacciato di un
supplemento d’esistenza, per chi paventi la fatica di morire e di rimorire. Ma
per noi, condannati a non reincarnarci, a che scopo arrabattarci per
affrancarci da un niente? Per liberarci da un terrore, la cui fine è già in
vista? A che scopo, poi, inseguire una irrealtà suprema, quando tutto, quaggiù,
è già irreale? Non vale certo la pena
di sbarazzarsi di qualcosa di così poco giustificato. Di così poco fondato» (E. M. Cioran, Il demiurgo cattivo, tr. it., Milano,
Adelphi, 1986, p. 112 s.).
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