Robert Bresson (1901-99) è stato
uno dei registi più rigorosi, dallo stile asciutto e curato, che nulla ha concesso
all’industria del cinema, tanto che a volte vien fatto di domandarsi come sia
riuscito a realizzare i suoi film.
Tra i suoi 13 lungometraggi, Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac) è del 1974 e si ispira
alle opere di Chrétien de Troyes, scritte verso il 1170 e dedicate alla
leggenda dei Cavalieri della tavola rotonda, vassalli del re Artù, mitico
personaggio che sarebbe vissuto tra il V-VI dell’era volgare. Questo gruppo di
cavalieri si era data, come particolare missione, quella della ricerca del
sacro Graal, il calice in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue
di Gesù e mai più ritrovato. Senza entrare in questa storia e sul significato
della reliquia, storia che da allora è continuata fino ai giorni nostri,
diciamo subito che Bresson non ha voluto fare nessuna ricostruzione storica: il
suo film si colloca infatti, al di là del tempo, e assume un significato archetipico,
pur legato al mito del Graal (inutile discutere se ci troviamo di fronte a una
rappresentazione della crisi del mondo della cavalleria o altro). Il film
inizia con il ritorno a mani vuote di Lancillotto e dei suoi, che non hanno
trovato la reliquia e questo qualifica subito il cavaliere come un “perdente”,
che è altresì carico della colpa di amare Ginevra, la moglie del re Artù, al
quale egli è, per altro, assolutamente fedele. Gelosia, conflitti, complotti
portano alla fine a uno scontro tra fedeli e traditori. Lancillotto e i suoi
moriranno, e si chiude così tragicamente la loro storia, che per noi oggi ha il
valore di una racconto esemplare sul costo della fedeltà, sull’impossibilità
dell’amore, sulla ricerca e il silenzio di Dio.
I cavalieri “imprigionati” dalle
loro armature si muovono come automi, dominati dal loro destino e fedeli ad
esso, robot dai quali tuttavia vediamo spesso il sangue filtrare all’esterno dalle
ferite al di sotto delle armature che celano il corpo e la loro umanità. Bresson
narra la tragedia del fallimento con una regia da maestro, in cui impiega un
alternarsi di scene buie (anticipazioni di morte) e altre luminosissime (elogio
del valore e apertura alla speranza), un sonoro con continui cigolii sinistri
delle ferraglie e nitriti fuori campo dei cavalli trascinati nel destino dei
loro padroni, inquadrature preziose come dipinti (in particolare nella sequenza
del torneo).
Un film bellissimo, fortemente angoscioso,
da avvicinare con rispetto e concentrazione: una vera espressione di cinema
spirituale.
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