Nel 1925, in occasione della pubblicazione a Monaco di una
serie di volumi dedicati alle opere di Dostoevskij, Freud fu invitato a
collaborare con un suo saggio. Lo scritto, intitolato Dostoevskij e il parricidio, ha la data del 1927 ed è ormai inserito
nel vol. X delle Opere di Freud. In
esso Freud afferma che «I fratelli
Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai stato scritto, l’episodio
del grande inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un
capitolo di bellezza inestimabile»
Per Freud l’essenza dell’opera è da ricondurre al tema del
complesso edipico, centrale nella psicoanalisi: «Non è certo un caso che tre
capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il
parricidio: alludiamo all’Edipo re di
Sofocle, all’Amleto di Shakespeare e ai
Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In
tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità
sessuale per il possesso della donna». Se ciò è sufficiente a spiegare
l’entusiasmo freudiano, sia consentito domandare il permesso di dissentire. Il
romanzo è uno dei grandi romanzi fiume ottocenteschi, di quelli che uscivano a
puntate sui giornali (nel caso, tra il 1879 e il 1880 su Il messaggero russo) e che gli autori componevano strada facendo:
infatti, risulta prolisso, con storie che si sovrappongono, si intersecano e si
perdono, lasciando poi incompiute quelle dei personaggi principali: Dostoevskij
morirà appena un paio di mesi dopo l’uscita dell’ultima puntata. I personaggi
sembrano costruiti per rispettare lo stereotipo dell’intellettualoide slavo,
velleitario nelle sue idee e pazzoide nel comportamento. Impossibile
identificarsi con essi e anche l’unico personaggio che dovrebbe essere “positivo”,
il minore dei fratelli, Alëša è un imbambolato e immaturo semi-monaco,
abbandonato alle soglie della maturità e
che non si sa che fine farà. Intorno, una quantità di femmine folli, a volta a
volta generose e sfruttatrici, fedeli e infide.
Quanto al “pezzo forte” della Leggenda del grande inquisitore, assistiamo allo scontro tra un
Gesù che ritorna, quasi di nascosto sulla Terra, a Siviglia, «nel periodo più
atroce dell’Inquisizione, quando, per la gloria di Dio, nel paese ardevano i
roghi» degli eretici. Gesù ricomincia il suo equivoco itinerario: vuole
“completare” la Legge e chiede una adesione libera al suo messaggio, ma non si
astiene dal compiere qualche miracolo che entusiasma le folle: se avesse voluto
avrebbe potuto veramente cambiare il mondo e non solo promettere di farlo in un
indefinito futuro alla fine dei tempi. “Giustamente”, l’inquisitore, qui eletto
da Dostoevskij a rappresentate della politica della Chiesa cattolica, lo fa
imprigionare e minaccia di mandarlo al rogo, perché Lui è venuto a perturbare
l’assetto che la Chiesa ha costruito, ingannando il popolo, ma dando una credibilità
al messaggio evangelico e realizzando una struttura di potere che garantisce
l’ordine e alimenta la speranza di felicità. Poi non se ne fa niente e
l’inquisitore dice a Gesù (che rimane in
silenzio e non giustifica questo suo ritorno in incognito) di non farsi più
vedere. Tutta la questione dell’adesione e dell’amore libero e non condizionato
dai miracoli e dalla potenza del Cristo oggi appare priva di fondamento (v.,
per quanto mi riguarda, il post del 120315 sul Libero arbitrio) e, forse, di interesse.
Altro grande tema, quello della colpa. Poiché tutti hanno
desiderato uccidere il proprio padre si ha una “diffusione” della colpa, in cui
non ha più importanza la distinzione tra l’esecutore materiale, il mandante,
l’ispiratore... per cui cambia poco che la punizione, venga inflitta al vero
colpevole o a un innocente, la pena venendo così cristianamente ad assumere un
valore redentivo. Il tema libertà-responsabilità-colpa è di quelli di cui le
scienze umane e le neuroscienze stanno ora tentando una profonda reimpostazione
e non ci possiamo più accontentare della poetica visione di Dostoevskij.
Viceversa, con il punto nel quale Ivàn parlando della
sofferenza innocente (di coloro, come i bambini e gli animali, che non hanno
conosciuto la differenza tra il bene e il male e quindi non hanno scelto) rinnega
i discorsi sull’armonia del mondo e dice: «mi affretto a restituire il mio
biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, devo restituirlo il più presto
possibile», Dostoevskij ha dato un efficace contributo letterario a quello che denominerei
“ateismo morale”. Riprendendo un tema antico, che va da Epicuro a Voltaire, ciò
che non si può più accettare è l’immagine di un Dio onnipotente che resta
insensibile di fronte al dolore o, peggio, lo “utilizza” in un disegno, in cui la sofferenza diviene il tributo
da pagare per edificare un destino di felicità per l’umanità. Dostoevskij non
sviluppa il ragionamento, non trae le conseguenze che metterebbero in crisi la
sua visione, pensa di potersene uscire con le parole di Alëša che, in
riferimento a Gesù, dice che c’è un Essere che «può perdonare tutto a tutti e
per conto di tutti perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti
e per tutto»: ovviamente, se non esplicitiamo che il Cristo è cooptato nella
regalità trinitaria e quindi complice del dolore da cui avrebbe potuto/dovuto liberare
l’umanità.
Occorrerà arrivare ai nostri giorni per trovare teologi più
coraggiosi e meno disposti ad accettare scambi o silenzi, basati su prudenze e
connivenze. Due esempi: Pietro Stefani, per il quale «il rinvio della giustizia
all’aldilà, la volontà di affermare che alla fine i conti torneranno» comporta
una strumentalizzazione della sofferenza [...] «il dolore che ha uno scopo è sempre
la sofferenza meno accettabile, proprio a causa del suo essere giustificata in
partenza, venendo in tal modo privata della sua dimensione scandalosa. Apparentemente,
sostenere che il soffrire ha senso sembra la via più conforme per renderlo
accettabile: in realtà diventa il motivo più paradossale per rifiutarlo. Se il
male ha uno scopo esso non è più davvero tale» (in La leggenda del grande inquisitore, conversazioni radiofoniche con
G. Zagrebelsky e altri, a cura di G. Caramore, Brescia, Morcelliana, 2003).
Vito Mancuso onestamente riconosce che il mondo buono non è e che «c’è una
immensa fatica diffusa in tutte le cose, un abisso di sofferenza, uno spreco
infinito. Il mondo. Guardarlo a partire dal sangue versato per il suo
progredire, guardarlo facendosi attraversare da quel dolore innocente che
nessun ritorno evolutivo potrà mai giustificare». E allora «il mondo
merita di essere amato? Oppure, a causa del prezzo altissimo di dolore che esso
impone, meriterebbe ben altro, cioè disprezzo, avversione, persino odio, o solo
noncuranza e distacco? E qual è il punto di vista più maturo per guardare
questo mondo nel quale siamo capitati nascendo? […] Qualcuno dice l’amore. Ma
che cos’è, da dove viene l’amore? È un risultato del lavoro del mondo oppure
una contraddizione del lavoro del mondo? È l’applicazione più coerente della
logica cosmica oppure ne è una trasgressione e un’eresia?» (Il principio passione, Milano, Garzanti, 2013). Anche questi Autori tendono, ovviamente, a qualche “ricomposizione”
futura: non potendo chieder loro di più, dobbiamo prendere atto dello sforzo
che comporta, per un teologo cristiano, il riconoscimento che i conti non
tornano ancora (e neppure nei tempi ultimi di Apocalisse, 6) e che Dio, per una teologia che si è liberata dalla
teodicea, possa essere visto proprio come «il luogo in cui si può dire che il
male è “scandalo” e non un evento “comune”» (Stefani).
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