martedì 28 aprile 2015

Freud, Dostoevskij e il patimento

Nel 1925, in occasione della pubblicazione a Monaco di una serie di volumi dedicati alle opere di Dostoevskij, Freud fu invitato a collaborare con un suo saggio. Lo scritto, intitolato Dostoevskij e il parricidio, ha la data del 1927 ed è ormai inserito nel vol. X delle Opere di Freud. In esso Freud afferma che «I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai stato scritto, l’episodio del grande inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile»
Per Freud l’essenza dell’opera è da ricondurre al tema del complesso edipico, centrale nella psicoanalisi: «Non è certo un caso che tre capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all’Edipo re di Sofocle, all’Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna». Se ciò è sufficiente a spiegare l’entusiasmo freudiano, sia consentito domandare il permesso di dissentire. Il romanzo è uno dei grandi romanzi fiume ottocenteschi, di quelli che uscivano a puntate sui giornali (nel caso, tra il 1879 e il 1880 su Il messaggero russo) e che gli autori componevano strada facendo: infatti, risulta prolisso, con storie che si sovrappongono, si intersecano e si perdono, lasciando poi incompiute quelle dei personaggi principali: Dostoevskij morirà appena un paio di mesi dopo l’uscita dell’ultima puntata. I personaggi sembrano costruiti per rispettare lo stereotipo dell’intellettualoide slavo, velleitario nelle sue idee e pazzoide nel comportamento. Impossibile identificarsi con essi e anche l’unico personaggio che dovrebbe essere “positivo”, il minore dei fratelli, Alëša è un imbambolato e immaturo semi-monaco, abbandonato  alle soglie della maturità e che non si sa che fine farà. Intorno, una quantità di femmine folli, a volta a volta generose e sfruttatrici, fedeli e infide.
Quanto al “pezzo forte” della Leggenda del grande inquisitore, assistiamo allo scontro tra un Gesù che ritorna, quasi di nascosto sulla Terra, a Siviglia, «nel periodo più atroce dell’Inquisizione, quando, per la gloria di Dio, nel paese ardevano i roghi» degli eretici. Gesù ricomincia il suo equivoco itinerario: vuole “completare” la Legge e chiede una adesione libera al suo messaggio, ma non si astiene dal compiere qualche miracolo che entusiasma le folle: se avesse voluto avrebbe potuto veramente cambiare il mondo e non solo promettere di farlo in un indefinito futuro alla fine dei tempi. “Giustamente”, l’inquisitore, qui eletto da Dostoevskij a rappresentate della politica della Chiesa cattolica, lo fa imprigionare e minaccia di mandarlo al rogo, perché Lui è venuto a perturbare l’assetto che la Chiesa ha costruito, ingannando il popolo, ma dando una credibilità al messaggio evangelico e realizzando una struttura di potere che garantisce l’ordine e alimenta la speranza di felicità. Poi non se ne fa niente e l’inquisitore dice  a Gesù (che rimane in silenzio e non giustifica questo suo ritorno in incognito) di non farsi più vedere. Tutta la questione dell’adesione e dell’amore libero e non condizionato dai miracoli e dalla potenza del Cristo oggi appare priva di fondamento (v., per quanto mi riguarda, il post del 120315 sul Libero arbitrio) e, forse, di interesse.
Altro grande tema, quello della colpa. Poiché tutti hanno desiderato uccidere il proprio padre si ha una “diffusione” della colpa, in cui non ha più importanza la distinzione tra l’esecutore materiale, il mandante, l’ispiratore... per cui cambia poco che la punizione, venga inflitta al vero colpevole o a un innocente, la pena venendo così cristianamente ad assumere un valore redentivo. Il tema libertà-responsabilità-colpa è di quelli di cui le scienze umane e le neuroscienze stanno ora tentando una profonda reimpostazione e non ci possiamo più accontentare della poetica visione di Dostoevskij.
Viceversa, con il punto nel quale Ivàn parlando della sofferenza innocente (di coloro, come i bambini e gli animali, che non hanno conosciuto la differenza tra il bene e il male e quindi non hanno scelto) rinnega i discorsi sull’armonia del mondo e dice: «mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, devo restituirlo il più presto possibile», Dostoevskij ha dato un efficace contributo letterario a quello che denominerei “ateismo morale”. Riprendendo un tema antico, che va da Epicuro a Voltaire, ciò che non si può più accettare è l’immagine di un Dio onnipotente che resta insensibile di fronte al dolore o, peggio, lo “utilizza” in un  disegno, in cui la sofferenza diviene il tributo da pagare per edificare un destino di felicità per l’umanità. Dostoevskij non sviluppa il ragionamento, non trae le conseguenze che metterebbero in crisi la sua visione, pensa di potersene uscire con le parole di Alëša che, in riferimento a Gesù, dice che c’è un Essere che «può perdonare tutto a tutti e per conto di tutti perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto»: ovviamente, se non esplicitiamo che il Cristo è cooptato nella regalità trinitaria e quindi complice del dolore da cui avrebbe potuto/dovuto liberare l’umanità.
Occorrerà arrivare ai nostri giorni per trovare teologi più coraggiosi e meno disposti ad accettare scambi o silenzi, basati su prudenze e connivenze. Due esempi: Pietro Stefani, per il quale «il rinvio della giustizia all’aldilà, la volontà di affermare che alla fine i conti torneranno» comporta una strumentalizzazione della sofferenza [...] «il dolore che ha uno scopo è sempre la sofferenza meno accettabile, proprio a causa del suo essere giustificata in partenza, venendo in tal modo privata della sua dimensione scandalosa. Apparentemente, sostenere che il soffrire ha senso sembra la via più conforme per renderlo accettabile: in realtà diventa il motivo più paradossale per rifiutarlo. Se il male ha uno scopo esso non è più davvero tale» (in La leggenda del grande inquisitore, conversazioni radiofoniche con G. Zagrebelsky e altri, a cura di G. Caramore, Brescia, Morcelliana, 2003). Vito Mancuso onestamente riconosce che il mondo buono non è e che «c’è una immensa fatica diffusa in tutte le cose, un abisso di sofferenza, uno spreco infinito. Il mondo. Guardarlo a partire dal sangue versato per il suo progredire, guardarlo facendosi attraversare da quel dolore innocente che nessun ritorno evolutivo potrà mai giustificare». E allora «il mondo merita di essere amato? Oppure, a causa del prezzo altissimo di dolore che esso impone, meriterebbe ben altro, cioè disprezzo, avversione, persino odio, o solo noncuranza e distacco? E qual è il punto di vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo? […] Qualcuno dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene l’amore? È un risultato del lavoro del mondo oppure una contraddizione del lavoro del mondo? È l’applicazione più coerente della logica cosmica oppure ne è una trasgressione e un’eresia?» (Il principio passione, Milano, Garzanti, 2013). Anche questi Autori tendono, ovviamente, a qualche “ricomposizione” futura: non potendo chieder loro di più, dobbiamo prendere atto dello sforzo che comporta, per un teologo cristiano, il riconoscimento che i conti non tornano ancora (e neppure nei tempi ultimi di Apocalisse, 6) e che Dio, per una teologia che si è liberata dalla teodicea, possa essere visto proprio come «il luogo in cui si può dire che il male è “scandalo” e non un evento “comune”» (Stefani).

Nessun commento: