In un intervento del coro, nell’Antigone,
Jean Anouilh (1942) presenta un interessante parallelo tra dramma e tragedia.
Mentre il dramma lascia la strada aperta agli eventi, agli imprevisti, ai rovesciamenti
delle situazioni, la tragedia è pulita, riposante, sicura, perché tutto si
svolge per una necessità assoluta e ineluttabile e Anouilh fa dire qui al Coro quella
frase che sarà cara agli esistenzialisti francesi: «C’est reposant, la tragédie, parce qu’on sait
qu’il n’y a plus d’espoir, le sale espoir [Perché si sa che non c’è più speranza, la sporca
speranza]». Antigone, contrapponendo la sua etica a quella di Creonte, ripete
anche lei: «Noi siamo di quelli che pongono gli interrogativi fin in fondo.
Fino a che veramente non resti più la minima possibilità di speranza vivente,
la più piccola possibilità di speranza da strangolare. Noi siamo di quelli che
saltano oltre quando la incontrano, la vostra speranza, la vostra cara
speranza, la vostra sporca speranza». E viene sottolineata la gratuità
dell’azione tragica, che porta solo alla attualizzazione del destino, con
un’azione elitaria,
nobile, aristocratica, nella quale non c’è da gemere, da lamentarsi, ma da
gridare «a piena voce quello che si doveva dire, che non si era mai detto e che
forse non si sapeva ancora. E per niente: per dirlo a sé stessi, per capirsi.
Nel dramma, ci si batte perché si spera di venirne fuori. È ignobile,
utilitaristico. Là è gratuito. È per i re. E non c’è più niente da tentare,
alla fine». Si realizza così un salto di livello, una consapevolezza che tutto
è giocato altrove (in un destino programmato
dagli dèi e agito dagli uomini) per cui «si è tutti innocenti, insomma! Non è perché uno uccide e
l’altro è ucciso. È [solo] una questione di distribuzione [di ruoli]».
Blog: un’occasione per parlare di sé ma non per sé, un tentativo di arginare lo spreco di esperienze, pensieri, emozioni, offrendone qualche frammento e fidando sul potenziale di universalità che è in ognuno; per riannodare fili, stabilire legami; come mani, parole tese verso…
sabato 12 luglio 2014
martedì 8 luglio 2014
giovedì 3 luglio 2014
Spiritualità del finito#7/Il Daimoku, ieri e oggi
La parola Daimoku in giapponese designa il titolo
di un sutra e, per estensione, la recitazione di esso, con particolare
riferimento al titolo del Sutra del Loto:
Myo-ho renge-kyo. L’aggiunta del Namu (dal sanscrito namah) iniziale ha il significato di omaggio, venerazione, consacrazione.
Assimilato il Dharma
[Legge, Insegnamento] al SdL e
stabilita l’ equivalenza tra esso e «l’intero corpo del Buddha» (cap. X) è
facile comprendere che vengano attribuiti al sutra i poteri divini e salvifici del
Dharma stesso. «Fra coloro che ascoltano il Dharma nemmeno uno mancherà di conseguire la buddhità»
è detto nel cap. II del SdL e, nel
cap. XXII, «come il
Buddha è il re delle leggi così questo sutra è il re dei sutra. […] Questo
sutra può salvare tutti gli esseri viventi; questo sutra può liberare tutti gli
esseri viventi dai dolori e dalle sofferenze; questo sutra può arrecare grandi
benefici a tutti gli esseri viventi ed esaudirne i desideri. Come una limpida e
fresca fonte è in grado di soddisfare tutti gli assetati, come un fuoco per chi
ha freddo, una veste per chi è nudo, una guida per una carovana di mercanti, la
madre per un bambino, una barca per chi deve attraversare le acque, un medico
per un ammalato, una lampada nell’oscurità, un gioiello per un povero, un
sovrano per un popolo, la via per il mare per un mercante in viaggio, una
torcia che fa svanire l’oscurità così è il Sutra
del Loto, capace di liberare tutti gli esseri viventi da ogni sofferenza e
da ogni malattia, e di sciogliere tutti i vincoli della vita mortale» (cap.
XXII).
Sulla base della valorizzazione
di questa scrittura, si è nel corso del tempo venuta a costituire la pratica
della preghiera del sutra, consistente nell’accogliere, leggere, recitare,
diffondere, copiare il SdL, intero o
soltanto pochi o anche un singolo verso o il suo “nome” (XXVI) o titolo, visto
come il più adeguato “riassunto” del testo ed essenza stessa dell’insegnamento
(analogamente al peso che veniva dato e continuiamo a dare al nome delle
persone). Va comunque ricordato, come fa notare G. Jenner (1994) che questo non
è esclusivo del SdL in quanto, nei
capitoli di dedica con cui termina la maggior parte dei sutra Mahayana, viene
spesso sottolineata, al fine di fornire una garanzia di legittimità, proprio l’importanza
del titolo. Nell’autorevole A History of
Japanese Religion, curata da K. Kasahara, viene riferito che, dalle
agiografie dell’ultimo periodo di Heian (periodo che va dall’VIII al XII sec.),
si apprende che molti dei devoti sostenitori del SdL [jikyosha]
cominciarono in Giappone un’opera di proselitismo per la salvezza di tutti gli
esseri senzienti. Secondo tali scritti, molti preti e devoti laici del Loto erano considerati capaci di
ottenere una rinascita in una delle Terre pure recitando qualche verso del Loto o il Daimoku nell’ora della morte e i pretesi effetti positivi ottenuti
recitando o copiando il SdL sono stati
all’origine di tutta una letteratura di racconti di miracoli, redatta a gloria
di questa scrittura. Al pari del latte, nutriente per il bambino anche se
questo non ne conosce le ragioni, la recitazione di mantra è stata ritenuta
capace di produrre effetti anche su chi non ne conosca tutti i significati
(efficacia ex opere operato). Anche nelle
narrazioni degli ultimi momenti della vita di Chih-i (538-597), patriarca del
Tiantai, viene menzionata, pur senza troppo enfatizzare l’importanza di questa
pratica, la recitazione del titolo del SdL.
Il pietismo del Loto, nella forma
della recitazione del titolo, raggiunse il culmine del suo sviluppo nell’insegnamento
di Nichiren (periodo di Kamakura, 1185-1333). Chih-i non considerava il titolo
come una “sintesi magica” del contenuto del testo, ma ne analizzava le parole
che lo compongono per dedurne una rappresentazione mistica dell’universo,
mentre Nichiren riprese, interpretò e modificò l’analisi di Chih-i attribuendo
al titolo un valore salvifico, anche sotto l’influenza dell’amidismo, il
popolare movimento “rivale” del periodo di Kamakura, che basava la sua pratica
salvifica nella ripetizione del nome di Amida (nella forma di Namu Amida Butsu = Onore/lode al Buddha
Amida). La pratica della recitazione di entrambe le due formule, continuò ad
avere larga diffusione, sia pure conservando i rispettivi differenti caratteri,
essendo quella amidista sostenuta-da e indirizzata-verso una visione di latente
monoteismo, quella di Nichiren da una marcata enfasi etico-sociale.
La recitazione
del Daimoku è stata, nel Novecento,
riaffermata dai tre principali movimenti di massa neo-buddhisti giapponesi (Reiyu-kai, Rissho Kosei-kai, Soka Gakkai),
che hanno proposto anche in Occidente la recitazione del Daimoku come forma di preghiera/meditazione, per cui non possiamo
non interrogarci sul significato e sul valore di questa pratica nell’ambito del
più generale problema dell’inculturazione del buddhismo in Europa e in America.
Accanto all’affermarsi delle correnti buddhiste tradizionali e dei “nuovi movimenti”,
è infatti maturata in Occidente l’esigenza di un buddhismo “critico” (nel senso
che si può attribuire a questo termine nella prospettiva francofortese) che, consapevole di sé e
della sua evoluzione storica, si mostri capace di una
riformulazione del Buddhadharma adeguata all’attuale contesto culturale
sviluppato, complesso, postmoderno, muovendo dall’assunto della centralità
della persona. Anche
della “preghiera del titolo” sembrano delinearsi pertanto due diverse letture: una
devozionale e una “critica” o postmoderna. Da quando Zygmunt Bauman ha reso
popolare la metafora della “liquidità” impiegandola nelle sue analisi della
cultura in cui viviamo (da cui espressioni come modernità liquida, vita
liquida, relazioni liquide...), possiamo affermare l’importanza di una concezione
dell’ego che, all’insegna della liquidità, recuperi il più vero
significato di un io privo di esistenza inerente, impermanente, insufficiente, ma
tuttavia, nella prospettiva mahayana, lo veda come il frutto più maturo
dell’albero del samsara-Nirvana, l’espressione più complessa ed elevata
dell’evoluzione, il luogo dove si realizza la consapevolezza dell’Essere: versione
(post-)moderna dell’umiltà, un io libero da inflazioni egocentriche e
caratterizzato da fluidità, scorrevolezza, adattabilità, potrà “diluirsi” in
una Realtà più grande, di cui riconoscersi parte, mantenendosi in un difficile equilibrio
che lo sottragga, da un lato, alla identificazione col mondo secolarizzato,
dall’altro, alla tentazione della fuga dal mondo.
Schematizzando, potremo così avere:
Daimoku
|
Buddhismo devozionale
|
Buddhismo “critico”
|
namu
|
la devozione, disposizione
all’unificazione, a divenire uno con il Dharma, fede nel Dharma,
|
mi connetto al...
sono consapevole del...
sono illuminato dal...
|
Myo Ho
|
la meravigliosa,
misteriosa, mistica, inafferrabile realtà della Legge, Dharma, Vita o, secondo le parole di Nichiren, la “mistica entità
della Via di Mezzo che è la realtà di tutte le cose”
|
Dharma o Legge (Ho)
inesprimibile, Mistero ultimo (Myo)
che governa il Mondo in tutte le sue manifestazioni: in namu myo ho si realizza il paradosso dell’unità di illuminazione
e ignoranza
|
renge
|
il Loto, l’immagine ideale
dell’uomo/bodhisattva che conserva puri il cuore e la mente anche nel mondo
corrotto
|
Loto come simbolo del
bodhisattva, l’uomo della Via di mezzo, impegnato nella realizzazione dei
valori nel modo della sofferenza, essere che “abita poeticamente il mondo”
(nella pratica dell’amore altruistico, della bellezza e della verità)
|
kyo
|
il sutra, l’insegnamento
attualizzato nella consapevolezza della Legge e nella realizzazione che «la
tua vita stessa è la Legge mistica» (Nichiren).
|
insegnamento e atteggiamento “critici”
|
Abbandonate le visioni e le interpretazioni
devozionali o “magiche”, la ripetizione del Daimoku
potrà dunque essere conservata anche in una prospettiva “critica”, quale valido
“mezzo abile” per:
1. ottenere, con l’impiego del
titolo come mantra, una modificazione dello stato di coscienza (samadhi, concentrazione,
rilassamento...),
2. concentrare l’attenzione sui
valori universali e sull’impegno nella loro affermazione,
3. praticare, al quotidiano, l’arte
della trascendenza,
4. richiamarsi all’insegnamento
dell’Illuminato,
5. unificarsi con la comunità transpersonale
dei ricercatori spirituali.
Per approfondire:
G. Jenner, Daimoku,
in Hobogirin, vol. 7, Maisonneuve-Maison
Franco-Japonaise, Parigi-Tokyo, 1994, ad
vocem;
K. Kasahara (Ed.), A
History of Japanese Religion, Tokyo, Kosei Publishing Co., 2001, p. 97 s.;
[SGK] Dizionario del
Buddismo, tr. it., Milano, Esperia, 2006.
R. Venturini, Ri-legature
buddhiste, Roma, Edizioni universitarie romane, 2010;
R. Venturini, Address to the Tendai
Symposium “Spreading the Dharma Overseas and the Future of Tendai Buddhism”, Tokyo, Tendai
Buddhist Sect Overseas Charitable Foundation, 2013, e, in italiano e in inglese,
in www.culturabuddhista.it
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