Nel suo tour filosofico Perché il
mondo esiste? (tr. it., Novara, De Agostini, 2013), proposto da Jim Holt in modo garbato,
esaustivo e gradevole, l’A. afferma che gli antichi pensatori greci, che
formularono delle cosmogonie razionali contrapposte alla varietà mitopoietica
rappresentata dai racconti della creazione, non si domandarono mai perché
esistesse il mondo invece del nulla, ritenendo che il mondo comincia ad
esistere quando al disordine viene imposto un ordine, quando il Caos diviene
Cosmo, sempre partendo da un principio, individuato in acqua, fuoco, àpeiron (materia indefinita)...
Occorreva arrivare a una cosmogonia nuova, quella della creazione ex nihilo per dare al nulla il carattere
di un’autentica possibilità ontologica e rendere plausibile chiedersi perché
esista il mondo invece del nulla, perché l’ente invece del niente. E infatti
Gottfried W. von Leibniz se lo chiese, formulando la domanda di tutte le
domande: «Perché l’Essere invece del Nulla?». La risposta data dallo stesso
Leibniz era in armonia con la tradizione religiosa cristiana: il mondo esiste
perché Dio lo crea, per propria scelta, mosso dalla propria infinita bontà. Si
tratta, evidentemente, di una di quelle “spiegazioni” che creano più problemi
che soluzioni (Perché c’è Dio? E quali le sue motivazioni?), ma ormai
l’incantesimo era stato rotto e la domanda fu ripresa dai filosofi successivi,
da Schelling a Hegel, Schopenhauer, Bergson, Heidegger... La cosmologia
scientifica non ha ignorato il problema, ma è sempre stata consapevole che la
domanda sul principio dei principî non può essere affrontato dalle scienze,
alle quali conviene limitarsi a indagare sull’origine del nostro universo,
della vita, della coscienza..., lasciando la domanda sul perché ultimo alla
religione e alla filosofia. Ma, ormai, non possiamo ignorare che la domanda si
pone a partire dall’Essere, dall’interno dell’Essere: non si porrebbe, infatti,
se l’Essere non ci fosse, non potendosi porre dal di fuori, in un punto/momento
di indifferente possibilità, senza interrogarsi su chi formula domanda. Poiché
l’Essere c’è, ci saranno (buone?) ragioni perché ci sia, secondo il paradigma
di causa-effetto, ragioni che, tuttavia, noi ignoriamo. Impossibile, quindi,
andare a un “prima”, perché o il tempo inizia col mondo o c’è sempre un “prima”
del prima: del big bang, della creazione, dello spazio quantico, etc., in uno
sterile regresso all’infinito.
La domanda si può porre allora in prospettiva teologica e a un più limitato
livello, rivolgendola a qualcosa o a qualcuno già presente: a Dio, un Dio
(necessariamente) esistente, creatore del mondo fenomenico (e di sé stesso?)
per capire quali potrebbero essere state le sue motivazioni. Si è affermato che
(per es., da S. Ignazio, in Esercizi,
n. 23), Dio «non ha altro motivo per creare se non il suo amore e la sua bontà.
L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio Nostro Signore e per
salvare, in questo modo, la propria anima»: Dio in quanto summum bonum, essendo diffusivum
sui, non potrebbe fare a meno di creare. Concetti presenti nel
Concilio Vaticano I (1868-70) e ripresi nel Catechismo
di Pio X, secondo i quali Dio crea per manifestare e creare la propria gloria (ove
per gloria dobbiamo intendere qui lo splendore, la grandezza, la
beatitudine della maestà divina): Dio, «padrone assoluto di tutte le
cose» (n.5), «ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per
goderlo poi nell’altra, in paradiso» (n. 13). Anche nel più recente Catechismo del 1992, leggiamo: «il mondo
è stato creato per la gloria di Dio» (n. 293) e «Dio ha creato tutto per
l’uomo, ma l’uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrigli tutta
la creazione» (n. 358). I termini “padrone”, “servire”, “gloria” sono termini
che, non c’è bisogno di sottolinearlo, suscitano reazioni di rigetto da parte
della mentalità moderna, ma non è su questo che vale ora la pena di
soffermarsi, quanto sulla “motivazione” divina. Da un lato, Dio avrebbe avuto
bisogno di essere riconosciuto e amato, ma l’amore, per come noi lo concepiamo,
implica sempre una mancanza, un bisogno, cosa che non si addice a un essere
perfettissimo; dall’altro, questa “necessità” di creare da chi verrebbe
imposta? C’è una legge a cui anche Dio deve sottostare? E che dire poi del
desiderio di essere glorificato, che ci fa pensare ai serafini sfibrati dalla
perenne ripetizione del tersanctus (Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Sabaoth),
e «fa di Dio il più raffinato dei narcisisti» (V. Mancuso)?
Più significativi appaiono i temi
della teodicea o di quello che chiamerei dell’“ateismo morale”, che vede la
creazione tanto intrisa di dolore da apparire non come frutto di amore
misericordioso, ma come opera di un essere incosciente o sadico piuttosto che
benevolo. «La divinità», ci si è chiesti «o vuole
abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e
può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in
contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il
che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia
insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla
sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» Gli
interrogativi di Epicuro, ripresi da Pierre Bayle (1647-1706), provocarono la
“risposta” di Leibniz, che introdusse il termine “teodicea” per la sua tesi
giustificazionista di Dio (che addossa all’uomo e al suo peccato tutta la
responsabilità del male e del dolore), poi avversata da Voltaire e confutata da
Kant. Non più gratificante è la visione di un Dio machiavellico, che userebbe
il male a fin di bene e che metterà, a suo tempo e a suo piacimento, le cose a
posto, dimenticando che un dolore provato è per sempre, per sempre rimane
irredento e non giustificato da ciò che può venire poi, a dispetto di tutte le
ideologie dell’armonizzazione. Son per questo preziose le riflessioni del
teologo Vito Mancuso che si domanda (in Il
principio passione): «Ma il mondo merita di essere amato? Oppure, a causa
del prezzo altissimo di dolore che esso impone, meriterebbe ben altro, cioè
disprezzo, avversione, persino odio, o solo noncuranza e distacco? E qual è il
punto di vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati
nascendo? […] Qualcuno dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene l’amore? È un
risultato del lavoro del mondo oppure una contraddizione del lavoro del mondo?
È l’applicazione più coerente della logica cosmica oppure ne è una
trasgressione e un’eresia?»
Perché
per il cosmo siamo così insignificanti? Enti finiti, collocati dentro-il
(come esistenti) e fuori-del (come spettatori interroganti) mondo siamo dunque
invitati a rinunciare sia alla domanda metafisica sul perché del mondo, che
rimanda sempre a un altro perché, sia alla domanda esistenziale sul dolore che
non possiamo spiegare. Ma per farlo senza cadere nel più pessimistico dei
nichilismi è necessario un passo ancora, che ci porti a trasformare, con un
lavorio di alchimia transpersonale, l’ignoranza, il patimento, la nausea
nell’affermazione (ma si potrebbe anche dire fede, impegno, apertura,
speranza...) del diverso valore che abbiamo intravisto proprio in virtù della
più profonda contraddizione esistenziale, per cui non sia vano pensare che il
coltello dell’assassino, la bruttezza e l’oscurità non siano “l’ultima
parola”... Quando Mishima diceva: «Io penso che i “grandi problemi”
siano cose davvero volgari» forse voleva dire che la “grande domanda” è
cosa oziosa, sciocca, da ignoranti, deviante da una spiritualità del finito a
cui, con altre parole, ci indirizzava Stendhal: «Chi siamo? Dove andiamo? Chi
lo sa? Nel dubbio, di concreto c’è soltanto il piacere tenero e sublime che ci
dànno la musica di Mozart e i quadri del Correggio (Stendhal, Passeggiate romane).
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