Raimon Panikkar (1918-2010), teologo e sacerdote, scomparso in questi giorni, è stato una figura di riferimento per molti, testimone del secolo nella sua lunga vita, uomo della pace e del dialogo, anzi del sincretismo (uso questa parola nel suo senso positivo, anche se per molti rimane ancora tabù) religioso, portando in sé, fin dalla nascita (figlio di padre indiano e di madre catalana), la radice del pluralismo. Di sé osava dire: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano».
Ha pubblicato una cinquantina di libri in varie lingue (ed è in corso di pubblicazione l’Opera Omnia). Di lui si è scritto e detto molto (notizie su di lui nel sito http://www.raimon-panikkar.org/index.html), per cui mi limito qui a qualche nota sulla sua trattazione del buddhismo, di cui ha dato esposizioni appassionanti. Panikkar sentiva tutto il fascino della figura del Buddha: «Quest’uomo non pretende di essere profeta, non reclama nessuna autorità speciale, non si dice inviato da nessuno, evita sistematicamente il nome di Dio», indicando la via media che «non vuole essere né mondana né religiosa, nel senso che a quei tempi s’intendeva per religione; vuole essere la via di mezzo, dell’equilibrio, dell’armonia, dell’equanimità, della serenità». La presentazione del buddhsimo offerta da Panikkar, tuttavia, è molto tradizionale, “antica”, ispirata alla tradizione Theravada o Hinayana. «Per il Buddha l’unica cosa che conta è farci raggiungere il nostro silenzio, il silenzio della creatura, l’annichilimento della creaturalità», egli scrive, perché l’uomo possa realizzare il compito «a cui è veramente chiamato: la distruzione della propria contingenza». Così viene ripetuta, come superamento del dolore, la tesi della generalità della sofferenza (parabola del grano di senape, Anguttara Nikaya) e la morte è presentata — visione pretragica! — con la similitudine del ritorno al mare della goccia d’acqua che sparisce come goccia mentre l’acqua resta sempre acqua. Già, ma la coscienza individuale dell’uomo ha una diversità radicale dalla goccia o dalla foglia (altra consueta similitudine) e così cominciano i problemi della modernità.
Su tante cose Panikkar non risponde e non dobbiamo forzare il suo silenzio: prendiamo le sue suggestioni in tutta la loro parzialità non chiedendo impossibili risposte onnicomprensive. Inutile osservare che il dialogo non si può realizzare in maniera unilaterale (serve ritirare fuori i vecchi esempi: da Hitler a Bin Laden?) o che, dando per scontato il non-odio, se la non-violenza assoluta può accettare il martirio, può, rifiutando le “ingerenze”, costringere al martirio il prossimo che subisce violenza?
Ancora, Panikkar ha parlato in modo affascinante del monaco come di un archetipo, che precede quindi tutte le declinazioni e le “figure” che può assumere: è esigenza di semplicità (il titolo originale di La sfida di scoprirsi monaco è, appunto, Blessed Simplicity), di ordine, di armonia. Ma la semplicità, se si allontana dalla via di mezzo, diviene fuga mondo, sterilità e rinuncia alla vita.
Oserei rilevare: la rinuncia più “sottile” e definitiva non è la rinuncia alla rinuncia? E non è il complesso che contiene il semplice?
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