Dopo il capolavolo Café Lumière (2003), il regista taiwanese Hou Hsiao-Sien (v. i post in data 28 04 09, 08 10 08 e 19 09 08) ha diretto (2005) il film in tre epidodi Three Times. Come lui stesso ha affermato, “questo approccio è legittimo perché i taiwanesi hanno un rapporto frammentato col tempo, la nostra storia è spezzata dalle differenti tappe delle nostre relazioni col mondo esterno, il continente, gli inglesi, gli olandesi, i giapponesi, gli americani... Per questo realizzare dei film a episodi è assai naturale da noi” (Cahiers du cinéma, nov. 2005). Gli episodi che compongono questo film sono tre storie d’amore, datate 1966, 1911, 2005 (sul perché di quest’ordine si è discusso: 1966 come omaggio del regista a sé stesso; nostalgia di un momento felice per la sua generazione; parallelismo tra i vissuti del 1911 e del 2005: ma, forse, non è questa la cosa più importante), storie di un amore rispettivamente incompiuto, mercenario, insensato. La coppia di attori che Hou Hsiao-Sien ha impiegato è la stessa nei tre episodi, quasi a rimarcare la pluralità di atteggiamenti che potremmo assumere al variare delle circostanze (nostre potenzialità che rimangono necessariamente solo in parte espresse e attualizzate?), coppia in cui si impone la sublime bellezza della trentenne taiwanese Shu Qi, un volto che esprime tutto il malinconico stupore asiatico non lontano dal sorriso delle sculture greche arcaiche in cui ogni gesto e ogni atteggiamento è scandito in obbedienza a un ordine supremo (sorriso eginetico).
Il 1966, nella Cina continentale “rivoluzione culturale” e “guerra fredda”, è per i ragazzi di Taiwan, un momento di pausa, tra gioco al biliardo (anche le loro vite rotolano sotto i colpi della stecca?) e servizio militare; la loro è una vita timida e trattenuta, e bisognerà arrivare alla fine dell’episodio perché i due si stringano silenziosamente la mano.
Il 1911, altro anno che nel continente è segnato dalla rivoluzione che porterà alla nascita della repubblica, ci parla di un amore contrariato da rapporti mercenari, impegni politici, rispetto di opprimenti tradizioni.
Il 2005, infine, vuole farci confrontare con l’attuale ipermoderno, frenetico e iperstimolante, in cui una ragazza epilettica (malattia da eccesso di eccitazione!) è alle prese con un compagno indefinibile, col quale consuma un sesso privo di sentimento in una convulsa girandola di telefoni “intelligenti”, computer, mezzi di comunicazione che comunicano solo disperazione e mezzi di trasporti che trasportano verso una meta assente.
C’è una “morale” da ricavare da questo film, che sa essere romantico, elegante, malinconico, disperato? Forse che il mondo non ha obiettivi e, quando li ha avuti, erano obiettivi illusori o che, comunque, non sono più recuperabili. Come avere indicazioni? C’è una nuova semantica o, almeno, una segnaletica utile? A questo forse il regista vuole portarci offrendo uno spazio inconsueto al linguaggio. Il primo episodio, che si dipana attraverso una storia epistolare, è ricco di una quantità di cartelli stradali che allusivamente conducono Chen a ritrovare May. Nell’episodio del 1911 il cinema si fa muto, com’era il cinema allora, e il racconto è accompagnato da molti “cartoni” che suppliscono all’assenza dell’audio. Nel 2005, cioè oggi, il rischio è quello di un rumoroso silenzio di significato, effetto di un eccesso di segni insignificanti: il rischio di un’epilessia della comunicazione. Ma Hou Hsiao-Sien sa che dopo la crisi epilettica viene la calma, una calma non più ottenuta con l’invito alla misura e al controllo, ma una calma dopo o dentro la malattia. Lui è già fuori con la sua capacità di analisi e di racconto: cerchiamo di raccoglierne l’insegnamento.
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