Tra la produzione di Mishima mi ha da sempre suscitato grande interesse e mi ha posto molti interrogativi il racconto intitolato L’amore dell’abate di Shiga. È un racconto in cui si tratta del conflitto tra l’amore e la vita religiosa, tra il rifiuto del mondo e il fascino della bellezza.
Un vecchio monaco del buddhismo amidista, ormai vicino alla fine della sua esistenza terrena, un giorno viene colpito, anzi sopraffatto dalla bellezza di una dama di corte, mandando in rovina quello che aveva ritenuto inattaccabile: il “mondo fluttuante” si era vendicato del rifiuto fatto in nome della disciplina spirituale? L’impossibilità di consumare il suo amore era fin troppo chiara all’abate, contemporaneamente consapevole dell’impossibilità di accedere alla Terra pura finché rimanesse schiavo di questo amore. Deciso a rivedere la dama, egli si avvia a chiederle udienza. L’autore sviluppa un’analisi parallela dei complessi sentimenti dei due personaggi e dei loro cambiamenti. Dopo una lunghissima attesa nel giardino della casa della dama, questa invia una cameriera per comunicare di essere disposta all’incontro. “Quando essa ebbe finito, l’abate emise un grido terribile, quasi disumano”. Il resto ha poca importanza: l’abate morì poco dopo l’incontro e la favorita imperiale donò al tempio i rotoli dei sutra da lei copiati.
Il mio interrogativo è sul grido dell’abate: cosa significa un grido e, in particolare, perché quel grido, quando la favorita aveva ormai accettato l’incontro, risoltosi poi soltanto in un contatto delle mani, senza neppure che l’abate vedesse quel volto che aveva causato tanto turbamento?
5 commenti:
Forse il grido è il grido di ognuno. Il grido che esprime un "getto" nel quale ognuno può vedere il proprio "progetto". Quello che farebbe e direbbe. Non conosco l'opera in question, ma la metterei in parallelo con il film "Lost in translation" di Sofia Coppola, quando Bill Murray sa trovare le parole che non udiamo e ognuno proiettare (pro-gettare) quallo che vuole. Chissà. Come dice Calvino, un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire. E in questo grido possiamo leggere, anche, forse,in diverse fasi della vita, quello che la fase distilla in noi....
Nel libro curato da Silvia Vegetti Finzi "Storia della passioni" l'autrice del testo sull'amore medievale avanza un'ipotesi ardita: deve esserci un rapporto tra l'amore verso dio e l'idea d'amore come grande passione che emerge nella letteratura medievale.
La mia è solo una "proposta ermeneutica". Un'ipotesi appena sfumato su cui forse si potrebbe lavorare.
Rattus
"Gli amici del bar Margherita" è un film di Pupi Avati dai toni autobiografici. Forse non si tratta di uno dei suoi migliori film se non per la vicenda di un anziano (il nonno del protagonista) che prende lezioni di piano da un'avvenente insegnante napoletana. Presto diviene chiaro che le lezioni sono in realtà un modo raffinato per nascondere un amore mercenario. Ebbene: quando l'insegnante si congeda dal nonno in modo definitivo perché si sposa e si trasferisce altrove, il nonno inizia a piangere ininterrottamente. Morirà di crepacuore qualche settimana dopo. Il gioco ermeneutico non è risolto ma all'abate abbiamo trovato un prosaico compagno di sventura.
Riporto un passo significativo del testo cui si riferisce Rattus nel suo post. "L'amore passione assoluta" è - in effetti - il saggio della professoressa Fumagalli Beonio, dedicato all'amore medievale, nel testo a cura di Silvia Vegetti Finzi ("Storia delle passioni)".
Eccolo:
«Ma esiste, per Agostino, un amore che per definizione deve al contrario essere smisurato: "la misura per amare Dio è amarlo senza misura". E allora si comprende perché l'amore sia non solo "più forte della morte" ma anche più forte della fede e della volontà (...). Questo amore che si libera da qualsiasi costrizione e rompe, anche se solo apparentemente, l'ordine, l'amore per Dio crea un modello nuovo di passione felice e assoluta che ha già molti dei caratteri delle future passioni amorose profane, quelle verso la creatura»
I commenti inviati hanno riguardato aspetti interessanti (sui quali si potrà tornare: la “misura” dei vari tipi di amore, i rapporti tra essi, gettare e pro-gettare...), ma che si allontanano dall’interrogativo che avevo posto: il significato del grido dell’abate e del momento in cui viene emmesso. Il grido è il punto estremo della comunicazione, una comunicazione dis-articolata, espressione di un vissuto di terrore, di dolore in-dicibile, regressivo e disumano, al di là anche del lamento: penso al grido di Gesù sulla Croce, a India Song della Duras, al quadro di Munch... Nel grido dell’abate di Shiga mi sembra di poter cogliere tre aspetti. 1. Al termine dell’attesa, l’abate realizza tutta l’umiliazione che è sempre connessa all’aspettare; 2. La risposta positiva della favorita imperiale lo mette di fronte all’inutilità di questa risposta, che arriva ormai troppo tardi e rivela tutta l’inconsistenza della sua infatuazione; 3. Ciò che, infine, si attua è il crollo del desiderio: per quanto irrealistico fosse, e contro i desideri aveva lottato tutta la vita, tuttavia, quel desiderio lo teneva in vita ed era la vita («La vraie patrie des hommes, c'est leur désir», diceva il poeta Léon Bloy], lo spingeva a studiarne anche il possibile legame con l’eternità: ora che non c’era più da aspettare e desiderare cosa restava? La morte, molto più forte di quel Nulla su cui si era esercitato per anni. Forse, come nella presa di coscienza dei Maestri del tè del racconto di Yasushi Inoue (Il diario postumo di Honkakubo), aveva improvvisamente capito che «“nulla” non elimina niente, è la morte che abolisce tutto». Quel grido dichiara il fallimento di una vita, è l’annuncio dell’indicibile della morte che ormai annienterà l’abate, raggiungendolo di lì a poco, nella sua condizione di totale “miseria”.
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