Siamo rimasti tutti sorpresi, commossi e, in qualche misura, impoveriti da questo gesto estremo compiuto dall’amabile papa Benedetto XVI.
Lasciare. Ci sono, evidentemente, differenti modi di lasciare: andando avanti
fino all’ultimo tra la rimozione, l’impudicizia e il martirio o umilmente ritirarsi,
appartarsi, prefigurare la propria assenza prima che questa sia decisa dai
misteriosi imperativi delle forze della natura. Se il rude Giovanni Paolo II
poteva proporre una teologia del corpo mostrando il suo disfacimento somatico,
il papa delicato, elegante e gentile che è stato Bendetto XVI ha svolto, anzi
sta svolgendo, la sua teologia dell’anima con l’affermazione della opportunità
del suo ritiro e l’indicazione (specie a questo mondo “distratto”) della bellezza
e dell’importanza della meditazione, dello studio e della preghiera, non solo
per sé, ma al servizio della Chiesa e dell’umanità. Con la più umile delle scelte, esemplare manifestazione di consapevolezza dell'umana fragilità e finitezza, Bendetto XVI ha così saputo improvvisamente dare alla Chiesa la più profonda delle riforme ci si potesse aspettare e le cui conseguenze saranno certamente più vaste di quanto possiamo immaginare oggi.
È difficile dire quanto abbiano potuto influire sulla
decisione di Benedetto XVI da un lato il peso di viaggi, impegni, scadenze del
calendario liturgico, l’esposizione mediatica propria del nostro tempo, che non
consente più neppure a un pontefice di vivere al riparo delle mura vaticane
com’era in un passato anche non troppo lontano, dall’altro l’inquietudine di
un’interrogazione sul senso della sua direzione di una Chiesa che non lo capiva
più o che Lui non capiva più. Non voglio qui parlare delle “sporcizie” (in
primo luogo quello della pedofilia), del carrierismo, degli affari, perché il vero logoramento
della Chiesa mi appare, invece, quello della identità e di un messaggio
spirituale che non riesce più a evocare Dio in un mondo che pensa di non averne
bisogno. Il teologo Ratzinger si è impegnato da sempre a cercare di rendere
ragionevoli i contenuti della fede, affinché il mito cristiano sia accettabile per quella mentalità moderna che si è costituita dall’Illuminismo ad oggi,
contemporaneamente lottando contro il cosiddetto relativismo, interpretato come
anarchia, soggettivismo, assenza di valori, e visto come la sfida principale
della Chiesa e dell’umanità. Disse proprio prima di diventare papa: «Avere una fede chiara, secondo il
Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il
relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di
dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si
va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come
definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Vedere in un pluralismo tollerante non una non-posizione o una meta-posizione,
ma una posizione tra le altre (la “laicité alla francese”) che imporrebbe la
sua verità rischia di compromettere senza appello un vero confronto non solo
col mondo laico, ma anche con le altre religioni, almeno quelle non-monoteistiche, sulla base della visione di Cristo unico mediatore di
salvezza (ricordiamo
la condanna della teologia del pluralismo religioso di Jacques Dupuis e il
dispregio per il buddhismo visto come “autoerotismo spirituale”). Analoga, la
chiusura verso le nuove sfide della bioetica, le esigenze di genere e la discussione
del tema della libertà-responsabilità individuale, con la riaffermazione del diritto
naturale e di una immutabile distinzione tra bene e male.
Di fronte a questo fallimento teologico determinato dall’incapacità o non volontà di entrare nello spirito del mondo moderno, il compito di indirizzo che spetterà al futuro pontefice si presenta quasi come una missione impossibile, destinata a un altro naufragio se la navigazione sarà ancora una volta tra gli scogli dell’ortodossia conservatrice o quelli della Chiesa servizio sociale. Possibile andare oltre? Mi sovviene la memoria del caro padre Giovanni Vannucci (dimenticato o non sufficientemente ricordato), quando affermava che, per chi voglia rimanere nell’ambito trinitario, dopo il Vangelo del Padre (ebraismo) e quello del Figlio (cristianesimo) si attende il Vangelo dello Spirito. Ma chi potrà “rivelarlo”? Se sono stati necessari Abramo e Mosè prima e Gesù poi, lo Spirito avrà bisogno di manifestarsi in una persona o nella “comunione dei santi”? Non diceva l’evangelista «E la Parola costruì in noi la sua dimora» (Gv. 1,14, nella trad. appunto di Vannucci)? Si dovrebbe proprio ripartire da quell’esperienza soggettiva guardata con sufficienza e diffidenza, per cogliere la trascendenza a partire dalla finitezza. «Io mi sforzo di far capire ai miei pazienti», diceva Jung, «che tutto ciò che accade loro contro la loro volontà viene da una forza superiore. Possono chiamarla Dio o demonio, a me non importa, purché capiscano che è una forza superiore. Ecco, Dio non è nulla di più che la forza superiore che agisce nella nostra vita» (Jung parla, tr. it., Milano, Adelphi, 1995, p. 317). E allora quali parole, quali racconti, quali gesti, quali comunità potranno essere costruiti, se si vorrà un vero rinnovamento, partendo da questa consapevolezza?
Di fronte a questo fallimento teologico determinato dall’incapacità o non volontà di entrare nello spirito del mondo moderno, il compito di indirizzo che spetterà al futuro pontefice si presenta quasi come una missione impossibile, destinata a un altro naufragio se la navigazione sarà ancora una volta tra gli scogli dell’ortodossia conservatrice o quelli della Chiesa servizio sociale. Possibile andare oltre? Mi sovviene la memoria del caro padre Giovanni Vannucci (dimenticato o non sufficientemente ricordato), quando affermava che, per chi voglia rimanere nell’ambito trinitario, dopo il Vangelo del Padre (ebraismo) e quello del Figlio (cristianesimo) si attende il Vangelo dello Spirito. Ma chi potrà “rivelarlo”? Se sono stati necessari Abramo e Mosè prima e Gesù poi, lo Spirito avrà bisogno di manifestarsi in una persona o nella “comunione dei santi”? Non diceva l’evangelista «E la Parola costruì in noi la sua dimora» (Gv. 1,14, nella trad. appunto di Vannucci)? Si dovrebbe proprio ripartire da quell’esperienza soggettiva guardata con sufficienza e diffidenza, per cogliere la trascendenza a partire dalla finitezza. «Io mi sforzo di far capire ai miei pazienti», diceva Jung, «che tutto ciò che accade loro contro la loro volontà viene da una forza superiore. Possono chiamarla Dio o demonio, a me non importa, purché capiscano che è una forza superiore. Ecco, Dio non è nulla di più che la forza superiore che agisce nella nostra vita» (Jung parla, tr. it., Milano, Adelphi, 1995, p. 317). E allora quali parole, quali racconti, quali gesti, quali comunità potranno essere costruiti, se si vorrà un vero rinnovamento, partendo da questa consapevolezza?
P. S. Vorrei indicare, per chi volesse approfondire
e non rimanere alle cronache, alle indiscrezioni e alle dietrologie, la lettura
di:
Sergio Quinzio, Mysterium
iniquitatis, Milano, Adelphi, 1995 (ove si ipotizza che l' "ultimo" papa con
la sua enciclica sancisca il “fallimento” del cristianesimo); Jacques Le Brun, Le pouvoir d’abdiquer, Paris, Gallimard,
2009 (un saggio, che forse ora diverrà popolare, di Le Brun, directeur d’études
à l’EPHE, sulla “déchéance volontaire”) e, per incontrare un cristianesimo con un aroma diverso, qualcuno dei libri di Giovanni Maria Vannucci (dell’Ordine dei Servi
di Maria, che fu insegnante presso il Marianum di Roma) e di Yves Raguin
(gesuita, per lunghi anni direttore dell’Istituto Ricci a Taiwan, centro di
studi cinesi della Compagnia di Gesù).
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