Non eadem est
aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure
Come ho avuto occasione di precisare altrove (vedi www.culturabuddhista.it > Spiritualità
in psicologia, psicopatologia, psicoterapia) il campo semantico dei termini
“spirito” e “spiritualità” è assai ampio e nel linguaggio comune sono definiti
da quelli del campo opposto, relativo alla “materialità”, a significare che la
realtà non è limitata al mondo fisico o storico, ma che esiste un diverso piano
di realtà o un diverso modo (spirituale, appunto) di rapportarsi alla realtà.
In termini positivi essi esprimono, pertanto, una attitudine tesa a
privilegiare le esigenze dello spirito, caratterizzate dal vivere il presente
alla luce delle cose ultime, in riferimento costante al mondo detto dei
“valori”, con una lettura dell’attuale in funzione di un “altro” tempo e una
considerazione del particolare nel quadro di un più ampio disegno. La
spiritualità diviene un’arte della trascendenza dall’immediato, operata nella
pluralità dei modi che le diverse culture e tradizioni hanno suggerito, per cui
si parla di spiritualità ebraica, cristiana, buddhista, etc. Espressioni
connesse sono quelle di esercizi, itinerari, cammini spirituali, indirizzati a
una purificazione dalle contaminazioni e dalle “dispersioni” mondane.
Nella maggior parte dei casi la perfezione è stata intesa
come negazione di tutte le distinzioni (e quindi delle negatività), un annullamento
di sé, un tentativo di approssimarsi o di sciogliersi nell’Uno, personale o
impersonale. M. Eliade aveva più volte sottolineato i pericoli insiti nella
“tentazione” di un rapporto diretto e immediato, in una sorta di cortocircuito,
col “totalmente altro. «Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella
sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto
particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato
di tutti i giorni, profano. Il “sacro” essendo totalmente diverso dal profano,
non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si
dice che il brahmano che “non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli
crea il sacrificio”, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra
che la sua povera natura creata, limitata non può sopportare» (M. Eliade, Il mito della reintegrazione). Ciò
configura le religioni come forme di relazione, ma anche di distanziamento dal
sacro, diversamente dal sogno dei mistici che non accettano la separazione
originaria e, dimenticando/cancellando il peccato originale, cercano di
recuperare il loro posto in cielo: assimilandosi progressivamente alla divinità
grazie all’ascesi, all’abbandono del mondo, alla
negazione dell’io e delle forme, sperano,
nella vertigine del nulla, di poterla finalmente
raggiungere. L’uomo spirituale (o religioso o simbolico) è, dunque,
“condannato” alla contraddizione di aspirare alla esperienza del “totalmente
altro”, ma di non poterla vivere tentando di abitare il mondo dietro il mondo, dove si diviene folli o si muore.
Esistono, tuttavia, altre
forme di spiritualità, quelle che propongono di vivere in “diverso modo” nel
mondo, come ad es. hanno fatto il buddhismo mahayana (che origina dalla
rivoluzionaria affermazione che il nirvana coincide col samsara) o alcune
espressioni della modernità. Questo significa vivere non per annullare i
fenomeni, e in essi il soggetto, ma per vederli come ierofanie
(manifestazioni
del sacro, di ciò che è oltre, di ciò che trascende), scorgendo l’infinito nel
finito, la totalità nel frammento,
l’eterno nel transeunte, il supremo
nell’umile
, il permanente nel mutevole, etc., lasciando all’uomo, pur
irredimibilmente limitato, effimero e continuamente esposto alla verifica della
radicale fragilità dell’esistenza il compito di compiere quel miracolo che è la
realizzazione dell’armonia, della compassione, della comprensione non fuori, ma
nel corso del tempo.
Il nirvana che coincide col samsara, vacuità che è forma,
significa consapevolezza che se la gioia della soddisfazione dei bisogni
appartiene al samsara, il nirvana, d’altra parte, essendo la sofferenza legata
alla determinazione non può mai essere completamente libero dal dolore. Il
bodhisattva è confrontato ancora col patimento, suo o degli altri che sente
come proprio, e il nirvana in cui vive non è nirvana "separato", assoluto summum bonum da scoprire e adorare: tutto ha il suo contrario, la
sua ombra, la sua ambiguità, di cui è lui stesso espressione.
Nella ricerca di alcune forme di questa che vorrei chiamare
“spiritualità del finito” cercheremo di incontrarne alcune manifestazioni, forse
meno vistose di quelle della negazione, presenti nella cultura antica o
moderna: cominciamo da questa “confessione” di Baudelaire.
°°°°°°
Ricordate
il Confiteor? Quella preghiera
penitenziale che recitavamo da bambini e che diceva: «Confesso a Dio onnipotente e a voi
fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni per mia
colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine
Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli di pregare per me il Signore Dio
nostro. Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e
ci conduca alla vita eterna»
Il
terzo dei poemetti degli Spleen de Paris
di Baudelaire si intitola proprio Confiteor
dell’artista, e qui l’artista confessa una colpa. Quale? Quella di essersi
lasciato andare al pensiero del dolce naufragio nell’infinito, nel mare di luce
(se piace pensare a “luce” piuttosto che oscurità e annullamento) che da
Platone ai mistici di ogni tempo, dai romantici agli euro-neo-induisti, ha
sempre rappresentato una tentazione di uscita dal mondo instabile, pieno di imperfezioni
e sofferenze. Nell’io che realizza la perfetta identificazione con
Brahman (o con Buddha, in quelle forme di buddhismo in cui ricompare il
non-dualismo indiano advaida) si cerca la liberazione dalla propria,
individuale disgrazia. E chi, meglio di Leopardi ha espresso questo pensiero? «Così
tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in
questo mare». Ecco quella che a Baudelaire appare come la colpa dell’artista:
«Grande delizia è sprofondare il proprio sguardo nell’immensità del cielo e del
mare! Solitudine, silenzio, incomparabile purezza dell’azzurro!» Come, in una
breve nota tempo fa osservava Pietro Citati — il nostro critico dallo stile perfetto,
penetrante, sempre dalla parte del lettore — , questo infinito romantico non
soddisfa più Baudelaire che dice: «Non vi è punta così acuminata come quella
dell’Infinito», un «infinito che ferisce, taglia le sensazioni, i sentimenti,
le immagini, i pensieri, i corpi e fa soffrire atrocemente. [... Se] leggendo
l’apertura del Confiteor dell’artista
avevamo creduto che la natura e il poeta collaborassero, e da questa
collaborazione di sensazioni e di
desideri nascesse il bello sovrano, silenzioso e incomparabilmente casto, ci
eravamo sbagliati. Tra la natura e l’artista non c’è nessuna collaborazione,
nessuna armonia, nessuna quiete. Il loro è un duello terribile» (Citati). È il
soggetto moderno che si ribella, si sente sopraffatto, ma non vuole
“naufragare”. «E ora la profondità del cielo mi costerna; la sua limpidità mi
esaspera. L’insensibilità del mare, l’immutabilità di questo spettacolo, mi
fanno rivoltare... Natura, incantatrice spietata, rivale sempre vittoriosa,
lasciami! Non tentare più i miei desideri e il mio orgoglio! Lo studio del
bello è un duello in cui l’artista grida il suo terrore prima di essere vinto».
Sofferenza e bellezza, grido della «mia irredimibile esistenza» che il Poeta
oggi offre. «La dolcezza morbida di Rousseau», dice ancora Citati, «viene
dimenticata. L’infinito moderno è la tensione, il duello, il fallimento, la
ferita».
Dunque,
non cercate più di sedurci con la proposta di dolci naufragi e non aiutate più
la natura spietata a soffocare il grido di terrore che il poeta tramuta per noi
nel bello che salva.
P. S. La traduzione che ho utilizzato è quella di Franco Rella.